Introduzione
Quando si parla del « viaggio della morte » affrontato dai harraga, ci si focalizza spesso e volentieri sulle motivazioni e sullo stato d’animo che spinge questi giovani a rischiare il tutto per tutto, ma raramente ci si sofferma sullo stato d’animo post-sbarco. Tuttavia, si dovrebbe esplorare il mondo interiore dei harraga durante il processo di integrazione sociale, concentrandosi sulla loro transizione da contesti familiari e protettivi a città occidentali con valori, costumi, abitudini, modi di fare e religioni completamente diversi.
Analizzando il concetto di « cultura » come un insieme di rappresentazioni, principi, norme e valori che orientano e organizzano vari aspetti della vita sociale di un gruppo o di una società, possiamo definire « confini simbolici » come quelle distinzioni concettuali costruite dagli attori sociali per categorizzare oggetti, persone, pratiche, spazio e tempo, e creare un senso di appartenenza al gruppo.
Quindi, l’identità sociale e collettiva non è altro che la differenza tra « noi » e « loro » e come l’appartenenza a un gruppo sociale contribuisce alla costruzione della concezione di sé di un individuo.
Il concetto di harraga è descritto come l’atto di bruciare i propri documenti prima di lasciare il proprio paese per l’Europa, simboleggiando la negazione dell’identità e l’adozione di una nuova dimensione culturale, ma è veramente possibile attuare un cambiamento così repentino, vivendo in un contesto completamente diverso da quello di provenienza ?
L’articolo ha l’obiettivo di evidenziare l’importanza di considerare il contesto culturale dei sintomi psicologici legati alla migrazione, per intervenire in modo efficace, discutendo il concetto di ibridismo e meticciato, che rappresenta il mescolamento di due o più ordini di elementi culturali diversi, e come questo processo di fusione influenzi i valori e le identità delle persone, sottolineando il legame tra cultura e comportamento individuale.
L’etnopsichiatria è un approccio che tiene conto del contesto culturale e si basa sulla conoscenza approfondita delle culture, dei simboli e delle credenze per interpretare le dinamiche psicologiche degli individui provenienti da diverse culture.
Le domande attorno alle quali ruota questo articolo sono : Quali sono gli stati d’animo dei harraga una volta sbarcati ? In che modo il distacco dalla propria cultura intacca lo stato psicofisico ?
1. L’identità sociale
Per cultura si intende
« il complesso di rappresentazioni e principi, di norme negative e positive, di valori connessi ai particolari modi di pensare e di agire di un gruppo o di una società che, nel loro insieme, orientano ed organizzano i diversi aspetti della vita sociale. »
Se parliamo di « confini simbolici », intendiamo quelle distinzioni concettuali costruite da attori sociali per categorizzare oggetti, persone, pratiche, spazio e tempo. Sono strumenti tramite i quali un gruppo sociale lotta per raggiungere un significato univoco della realtà. I « confini simbolici », inoltre, distinguono le persone in gruppi generando il sentimento di appartenenza al gruppo. Solo quando i « confini simbolici » sono ampiamente condivisi assumono un carattere vincolante e solo in questo caso si trasformano in confini sociali, traducendosi per esempio in modelli di esclusione sociale o segregazione etnica e di classe (fonte : « Boundary making : Social boundaries and their construction » di Michele Lamont e Matthew Molnar, pubblicato sulla rivista « Social Forces » nel 2002, pag. 170).
Oltre ad essere umani siamo anche soggetti culturali, vi è nella nostra psiche una dimensione culturale imprescindibile, la cultura e la sua lingua ci donano un involucro psichico e culturale fin dai primi anni di vita, involucro sul quale tessiamo e costruiamo la nostra strutturazione mentale (fonte : « L’infanzia del mondo » di Tobie Nathan, pubblicato nel 1993).
Nello specifico, l’identità sociale e collettiva, differenzia il « noi » dal « loro », più precisamente tra in-group e out-group, come esposto dalla teoria dell’identità sociale di Tajfel e Turner (fonte : « Psicologia sociale » di Francesco Agnoli e Massimo Palagi, 2019, pag. 142). L’identità sociale di un individuo è legata all’appartenenza ad un gruppo sociale, in poche parole l’individuo costruisce la sua concezione di sé in quanto membro di un gruppo specifico.
Si può osservare da più vicino ciò che accade nel momento del « mescolamento » di due elementi parzialmente o totalmente diversi, nel caso del repentino cambiamento di vita legato al processo migratorio, all’abitare e vivere in un mondo diverso rispetto a quello di provenienza come può essere quello del harraga.
In uno studio di Hertz (« Il processo di elaborazione del lutto » Roberto Hertz, pubblicato sulla rivista « Psicologia e psicoterapia » 2000, pag. 11), l’esperienza migratoria viene divisa in due fasi :
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La prima fase è quella d’impatto, dove l’individuo vive una successione di brevi momenti di euforia seguiti da rilassamento, sensazione di realizzazione e soddisfazione.
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Mentre la seconda fase, detta di « rebound », è caratterizzata da sentimenti di delusione, scontentezza, collera, ritiro o depressione.
Questo è il caso dei Harraga, che vivono il passaggio da contesti familiari e protettivi a città occidentali urbanizzate, dove valori, costumi, abitudini, modi di fare, religione sono completamente diversi.
In poche parole, come sostiene « Schouler », l’emigrato resta tra l’illusione del nuovo mondo e l’illusione del ritorno a casa (fonte : Nathan, T. 1993. « L’infanzia nel mondo ». Milano : Feltrinelli. Pag. 132).
Basti pensare come il fenomeno « haraga » (che in arabo significa « incenerire »), rappresenta l’atto di bruciare i propri documenti, prima di lasciare il proprio paese per l’Europa, tralasciando la dimensione strategica, rendere impossibile la propria identità assume una forte connotazione simbolica, che evidenzia come molti degli immigrati clandestini, sembrano mettere in atto una dimensione di « invisibilità sociale/culturale », simile ai riti di passaggio.
Si può concludere affermando che
« la cultura non è dunque una sorta di ‘capriccio’ o un accessorio secondario dell’evoluzione umana. Essa non è un abito, né un colore, ma rappresenta il fondamento strutturale e strutturante dello psichismo umano. » (cit. Tobie Nathan, « L’infanzia del mondo », 1993).
Le statistiche affermano che il numero di individui affetti da disagi psicologici da migrazione è significativo, in quanto il fenomeno migratorio è complesso, considerato un « investimento » da parte del singolo o spesso da un’intera famiglia, che spesso viene « scelto » assumendo un ruolo salvifico, addossando il peso di una responsabilità non indifferente.
Inoltre il fenomeno migratorio mette l’individuo a contatto con la propria vulnerabilità, comportando un’esperienza traumatica, che può essere legata anche al viaggio ed ai metodi utilizzati nel compimento di quest’ultimo. Quindi lo sradicamento, il cambio di abitudini, tutto questo iter porta a sindromi specifiche migratorie.
Per poter intervenire bisogna tener conto del « contesto culturale » del sintomo, in quanto spesso nemmeno il paziente stesso comprende.
1.1. Concetto di Ibridismo e Meticciato
Per ibridismo o meticciato si intende il mescolamento di due o più ordini di elementi parzialmente o totalmente diversi. In poche parole, è un incontro tra due culture che incarna la possibilità di una ristrutturazione dei valori, una « negoziazione » continua tra sé e l’altro da sé.
« Ibridismo » è un termine più generale che può essere applicato a qualsiasi tipo di mescolanza, che sia culturale, etnica o linguistica. Il termine ha origine dal latino « hybrida », che significa « la nascita di una specie diversa da quella dei genitori ».
« Meticciato », invece, è un termine più specifico usato per descrivere la mescolanza tra due o più gruppi etnici. La sua radice è nel latino « mixticius », che significa « mischiato ».
Nel contesto della cultura e dell’identità, sia l’ibridismo che il meticciato possono essere considerati processi dinamici e creativi che possono portare all’emergere di nuove forme di cultura e identità, come ad esempio :
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La cultura creola, che rappresenta una fusione di culture europee, africane e amerinde.
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La cultura latinoamericana, che è una combinazione di culture europee, africane e indigene.
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La cultura statunitense, che mescola culture europee, africane, asiatiche e indigene.
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La cultura australiana, che è il risultato di una mescolanza tra culture europee, aborigene e asiatiche.
Questa è la realtà del mondo di oggi, ovvero una fusione con i « mondi altri », come può essere anche quello magrebino con quello europeo.
Perlopiù, questi sono termini dispregiativi che indicano una tipologia di società « impura ». Tuttavia, riflettendo sul significato profondo dei termini, si può evincere la rappresentazione dell’eredità di più mondi, in quanto l’ibridismo e il meticciato possono avere un impatto significativo sulla cultura e sull’identità, favorendo la creazione di nuove forme culturali più inclusive e rappresentative delle diverse culture e gruppi etnici coinvolti.
Tuttavia, possono anche generare conflitti e tensioni, in quanto potrebbero essere visti come una minaccia all’identità e alla cultura tradizionale, o addirittura potrebbero essere strumentalizzati per giustificare la discriminazione e l’oppressione.
In conclusione, l’ibridismo e il meticciato sono fenomeni complessi e diversificati che possono contribuire alla nascita di nuove culture e identità, ma allo stesso tempo possono generare conflitti e sfide.
1.2. L’influenza della cultura sul benessere mentale : il concetto di nostalgia
Approdando nel 1688, anno in cui Johannes Hofer (« Dissertatio curiosa-medica, de nostalgia, vulgo : Heimwehe oder Heimsehnsucht », tesi di laurea in medicina, 1688), descrive una patologia che affliggeva i mercenari svizzeri ingaggiati dal re di Francia Luigi XIV, questi soldati mostravano inappetenza, svenimenti e una condizione clinica che spesso portava alla morte. Questo quadro clinico condizionava il normale svolgimento delle mansioni dei mercenari, per cui molti furono rimpatriati. Hofer, a questo proposito, descrive come i sintomi regredivano a mano a mano che i giovani guerrieri si riavvicinavano a « casa ».
Questo quadro diagnostico venne poi definito dallo studioso con il neologismo « nostalgia » (dal greco Nostos = ritorno, Algos = dolore), ovvero uno stato depressivo associato a gravi disturbi psicologici che portano regolarmente alla morte del soggetto, a meno che non sia disponibile l’unica cura possibile per lui, cioè il rimpatrio.
I sintomi psichici dei mercenari si riflettevano quindi sullo stato fisico, a causa della lontananza dal luogo d’origine e della paura di non farvi ritorno. Al contrario, i sintomi regredivano nel momento in cui si faceva ritorno in patria.
A questo punto, prende sempre più piede l’idea che la cultura (insieme di usi, costumi, lingua, credenze, ecc.) influisca in maniera diretta sul comportamento dell’individuo.
Questo è il concetto cardine su cui si basa l’etnopsichiatria, ovvero l’arte di prendersi cura della psiche in specifici contesti :
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éthnos : famiglia, stirpe, territorio
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psyché : soffio vitale, spirito
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latréia : arte del prendersi cura.
Questa disciplina racchiude in sé più campi d’indagine, come la psicologia, psichiatria, psicoanalisi, antropologia culturale, storia delle religioni e sociologia.
Nei primi anni del Novecento, con il colonialismo, si entra in contatto con nuove realtà che poco hanno a che fare con quella europea. Ci si trova quindi davanti alla necessità di rivalutare i parametri di normalità e follia, così come il concetto di persona e gli strumenti per valutarne il grado di sofferenza psicologica.
A questo punto crollano i concetti cardini di « universalità » della psichiatria e psicoanalisi, sostituiti dal concetto di « relativismo culturale », ovvero che per leggere e interpretare le dinamiche psicologiche inconsce di individui di culture diverse, risulta necessaria una approfondita conoscenza antropologica degli usi, costumi, lingua, del tipo di relazioni umane e delle credenze della cultura di appartenenza dell’individuo.
Il contesto culturale nel quale si è immersi dalla nascita condiziona e guida la psiche ; si crea una sorta di contenitore che funge da guida per orientare la visione degli altri e, di conseguenza, il comportamento. Nel caso della migrazione, questo « contenitore » viene intaccato fino a infrangersi in mille pezzi, mettendo in discussione l’identità dell’individuo.
A questo punto, l’etnopsichiatria cerca di aiutare l’individuo partendo dalla soggettività del professionista, che, per entrare in contatto con l’altro, dovrà partire dalla conoscenza di sé stesso, della sua cultura di appartenenza e di ciò che prova stando a contatto con il paziente, per capire quando dover attingere dalla propria esperienza e quando dover attingere all’antropologia e all’etnografia
3. Etnopsicoanalisi
Si può entrare nel mondo culturale dell’altro, usandone il linguaggio, i simboli interni per promuovere il cambiamento. Questo metodo si basa su tre enunciati :
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Cultura e apparato psichico sono interconnessi : la psiche è una struttura adibita a creare legami che si autoregola grazie alle direttive fornite dalla cultura.
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Tutte le terapie tradizionali sono operazioni razionali efficaci ma da verificare, quindi che possono essere messe in discussione.
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Non esiste una psicoterapia, ma tante auto-terapie che possono essere innescate da persone o eventi esterni.
Infine, la teoria dalla quale si concettualizza il disturbo del paziente deve essere una teoria valida nel suo universo culturale, questo perché ogni cultura fornisce simboli e credenze per gestirne la sofferenza. Ogni realtà e contesto culturale, genera una modalità per ammalarsi con conseguenti modelli di cura, che provocano uno scontro tra le due realtà (quella del paziente harraga, e quella del medico occidentale) nel momento della risoluzione. Un esempio può essere quello dei harraga che provenienti dal Maghreb riferiscono di essere posseduti da demoni o più precisamente da Jin, o di essere vittime di sortilegi (possessione islamica). Conseguentemente manifestano sintomi fisici, allucinazioni, depressione o isteria, a questo punto la conoscenza della cultura di origine dei pazienti fortemente credenti, rende l’accesso da parte del terapeuta, a quel linguaggio religioso, che una volta compreso rende possibile l’interpretazione dei sintomi e l’inizio di un percorso terapeutico adeguato, in quanto la possessione islamica è un fenomeno complesso che può avere un impatto significativo sulla salute mentale e fisica della persona posseduta.
Alessandro Legacci, sostiene che l’utilizzo del termine « Bismillah » è fondamentale quando ci si trova davanti a pazienti tormentati da Jin, crea un rapporto di fiducia tra paziente e terapeuta, Legacci sostiene inoltre che l’utilizzo del termine « Bismillah » è importante per due motivi :
In primo luogo, « Bismillah » è una formula islamica che viene utilizzata per iniziare un’azione, in questo caso l’azione è la terapia, quindi l’utilizzo di questo termine indica al paziente che il terapeuta è rispettoso della sua cultura e delle sue credenze.
In secondo luogo, « Bismillah » può essere visto come un atto di protezione contro il Jin, in quanto può essere spaventato dalla pronuncia del termine, può essere quindi meno propenso a possedere la persona. Tutto ciò può facilitare il processo terapeutico. (Legacci, A. « La possessione islamica : approccio clinico e culturale ». Milano : FrancoAngeli 2017, pag. 108-110)
Infine possiamo riassumere questo rapporto di fiducia tra immigrato e terapeuta con una citazione che ben inquadra le corresponsabilità dei due attori :
« La Medicina delle Migrazioni in Italia, è quel processo culturale che fa degli immigrati i « nuovi cittadini » in un’ottica di reciprocità e corresponsabilità » (« La Medicina delle Migrazioni in Italia : un percorso di inclusione » di Salvatore Geraci, pubblicato sulla rivista « Medicina e Società » 2010, pag. 10)
Quindi il processo si basa su due principi fondamentali :
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Reciprocità : gli immigrati hanno il diritto di accedere ai servizi sanitari italiani, ma hanno anche il dovere di rispettare le leggi e le norme italiane.
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Corresponsabilità : la società italiana ha il dovere di accogliere e integrare gli immigrati, ma gli immigrati hanno anche il dovere di contribuire alla società italiana.
Conclusione
In conclusione, si può affermare che lo stato mentale dell’harraga durante la fase dell’integrazione sociale offre una prospettiva interessante sull’importanza di considerare il contesto culturale nelle dinamiche psicologiche degli individui provenienti da diverse culture. Attraverso l’analisi del concetto di cultura, dei confini simbolici e dell’identità sociale, l’articolo mette in evidenza come l’appartenenza a un gruppo sociale influenzi la concezione di sé e l’esperienza individuale. In particolare, concentrandosi sui harraga e la loro transizione da contesti familiari a città occidentali, si evidenzia il peso della migrazione e dei cambiamenti radicali di vita sullo stato mentale degli individui. Il concetto di harraga simboleggia la negazione dell’identità e l’adozione di una dimensione di invisibilità sociale e culturale che in realtà non può essere attuata. Lo studio menziona le fasi dell’esperienza migratoria, evidenziando l’impatto iniziale seguito da un periodo di delusione, scontentezza e depressione, introducendo il concetto di nostalgia e il suo impatto sul benessere mentale dell’individuo, facendo riferimento all’esperienza descritta da Johannes Hofer nel XVII secolo nella quale emerge il legame tra cultura e comportamento individuale. Quindi, una volta evidenziata l’importanza di considerare il contesto culturale nei sintomi psicologici legati alla migrazione al fine di intervenire in modo efficace e supportare l’integrazione sociale, viene valutata l’etnopsichiatria e di conseguenza l’etnopsicoanalisi, come approcci che tengono conto delle specificità culturali e utilizzano il linguaggio, i simboli e le credenze culturali per interpretare e favorire il cambiamento. Infine, ci si sofferma sulla consapevolezza dell’importanza della cultura nel comprendere le dinamiche psicologiche degli individui provenienti da contesti culturali diversi e sottolinea la necessità di un approccio sensibile alla diversità culturale nella pratica clinica e nell’intervento sociale.