Introduzione
La reticenza è un concetto pragmatico che si riscontra in vari settori della produzione artistica, per necessità o per scelta degli autori. Trattare questo concetto esige in primo luogo interrogarsi sul suo significato o sulla sua definizione. Cosa significa la reticenza in generale e nella scrittura letteraria in particolare ?
Aprendo qualsiasi dizionario di lingua, si può rintracciare il seguente significato dato dai francesi : « réticence, dérive du latin reticere, qui veut dire se taire. Est une omission volontaire d’une chose qu’on devrait dire, ou la chose même qu’on n’a pas dite ».1
Anche la definizione degli italiani va di pari passo con quella francese, secondo loro, “la reticenza, è derivante anche dal latino reticentĭa, cioè l’essere reticente ; atteggiamento, comportamento di chi è reticente. Quest’ultimo significa la persona che tace con intenzione qualcosa che sa o che dovrebbe dire ; più genericamente, di chi non è esplicito e franco nelle sue dichiarazione”.2
Questo da un lato, ma anche dall’altro, la reticenza è una figura retorica che spetta alla categoria delle figure retoriche logiche, in questo contesto, porta anche il nome di Aposiopesi. In quanto tale, si definisce così : « est la figure de pensée par laquelle l’orateur, tout en se taisant, laisse entendre ce qu’il affecte de passer sous silence »3.
È anche la figura retorica che consiste nell’interrompere una frase lasciando il seguito all’immaginazione dell’ascoltatore.
Il vasto campo semantico della reticenza le permette di estendersi incaricandosi di altri sensi tali : aposiospesis, ulteriore motivo, circospezione, discrezione, occultamento, esitazione, interruzione, mistero, ostruzione, omissione, paralipo, riserva, restrizione, silenzio, implicito, tentativi ed errori.
1. La reticenza nel campo letterario
Nel campo letterario, la reticenza si manifesta più spesso nel senso dell’implicito, si chiama anche il tacere della parola letteraria accanto al disimpegno e responsabilità della parola letteraria. Così Augusto Ponzio spiega gli aspetti sotto cui si può manifestare la reticenza illustrando il suo discorso con delle teorie di saggisti quanto : Michail Bachtin (1979), Roland Barthes (1978) e (1982) e Søren Kierkegaard (1995), senza dimenticare un’opinione che pesa molto come lo scrittore italiano Italo Calvino.
Secondo Calvino :
A volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dalle parole con nuove circostanze [...]. Ma forse l’inconsistenza non è nelle immagini o nel linguaggio soltanto : è nel mondo. La peste colpisce anche la vita delle persone, la storia delle nazioni, rende tutte le storie informi, casuali, confuse [...]. Non mi interessa qui chiedermi se le origini di quest’epidemia del linguaggio siano da ricercare nella politica, nell’ideologia, nell’uniformità burocratica, nell’omogeneizzazione dei mass-media, nella diffusione scolastica della media cultura. Quel che mi interessa sono le possibilità di salute. La letteratura (e forse solo la letteratura) può creare degli anticorpi che contrastino l’espandersi della peste del linguaggio [...]. Il mio disagio è per la perdita di forma che constato nella vita, e a cui cerco di opporre l’unica difesa che riesco a concepire : un’idea della letteratura (Ponzio, 2007 : 237).
L’operazione della scrittura schiva il senso dominante dell’universo della parola diretta, monologica, del silenzio, il senso evidente che è di solito collegato all’imposizione del silenzio e del voler sentire, ciò che fa di conseguenza il sottrarsi dei significati ai consueti percorsi interpretativi. Per Bachtin (Ponzio, 2007: 237): “scrittore è chi sa lavorare sulla lingua standone fuori, è chi possiede il dono del parlare indiretto”. Lo scrittore, in qualità di autore primario, autore-uomo, non dice nulla. Nell’opera letteraria, “l’autore primario indossa la veste del tacere” (Ponzio, 2007: 237), e questo tacere viene manifestato sotto forme diverse, dalla parodia all’ironia, all’allegoria, ecc., e senza dubbio forme di reticenza.
La scrittura letteraria, nei confronti dell’universo della parola diretta, della parola oggettiva, dell’identità, della totalità, del monologismo, dell’univocità, del potere del linguaggio, dell’omologazione dei bisogni e dei desideri, del silenzio, non si oppone ponendo un altro senso, un altro contenuto che si soggiunge al senso dominante, al senso ovvio Barthes (1982: 43-63), ma “apre il campo del senso totalmente”, “apre all’infinito del linguaggio” (ivi: 45-46). Il tacere schiva il senso, sconvolgendo così al posto del contenuto, la pratica stessa del senso ed allargando la pratica della significazione con quella della significanza, liberando di seguito significati che si sfuggono ai percorsi interpretativi, ai significati abituali, attraverso l’uso del linguaggio verbale in modo che esso non riscontri compensazione in un obiettivo, che non si giustifichi con una funzione.
Non si può ritenere il tacere come rifiuto del linguaggio verbale, ma piuttosto si considera come sfuggire il suo uso in funzione dell’identità. Esso rappresenta parlare in modo indiretto, parola distanziata, parola ironica, parodia, riso ridotto (Bachtin 1979, it.: 367). Il tacere della scrittura letteraria, la tecnica del parlare indiretto, rappresenta “quell’azione di slittamento esercitata sulla lingua” che secondo Barthes (1978) (Ponzio, 2007: 238)è quella propria dello scrittore, e come dice Bachtin (1979) (Ponzio, 2007: 237) “può assumere diverse forme di espressione, diverse forme di riso ridotto (ironia), di allegoria, ecc”. secondo Kierkegaard (1995, II: 193) : “il segreto della comunicazione consiste per l’appunto nel rendere libero l’altro, ed è per questo che egli [lo scrittore] non deve comunicare direttamente, anzi sarebbe sacrilegio il farlo”. (Ponzio, 2007 : 238-239).
2. La reticenza nell’opera fantastica
Nel genere del fantastico, la reticenza segna una forte presenza, e non solo nella produzione delle opere (romanzi, racconti, novelle) ma anche nel discorso critico su questo genere. Secondo Stefano Lazzarin, la reticenza fa parte dell’antologia o del trattato di retorica dell’indicibile fantastico-orrifico. Quanto la perifrasi, l’eufemismo e anche l’iperbole, la reticenza ha la facoltà di spingere oltre, ad esempio fino a quella figura della narrazione d’orrore, che provoca la riflessione sull’indicibile e l’inconcepibile nel momento stesso in cui lo si mette in scena ; ad esempio : nella famosa esclamazione di Macduff nell’opera Macbeth (1992: 63) di Shakespeare, che l’insostenibile e l’innominabile li ha appena visti nella persona del re Duncan vigliaccamente trucidato : “O horror, horror, horror ! / Tongue nor heart cannot conceive, nor name thee ! ”.
Al contrario della fine del Settecento, epoca in cui gli archetipi potevano essere cercati prima della svolta storica nel sistema europeo dei generi letterari, Orlando (1994: 69-71) e Ceserani (1997: 19-20), nel periodo dell’inizio Ottocento, secolo dell’invenzione del racconto fantastico e del racconto d’orrore moderno, questa esclusiva tecnica del dicibile e dell’indicibile, del visibile e del non rappresentabile è ricorrente, più intensamente, più decisamente all’interno dei testi. Si deve dire che da sempre, la letteratura d’orrore sfruttava i meccanismi e gli stratagemmi che permettono di dire e non dire, di far vedere e nascondere. (Lazzarin, 2014 : 5-6). Il repertorio delle opere fantastiche dell’Ottocento è pieno di esempi noti di reticenza fino all’inizio Novecento, ad esempio : Fragoletta (1829) di Latouche, La Vénus d’Ille (1837) e Lokis (1869) di Mérimée e L’Appel de Cthulhu (1928) di Lovecraft.
Questi tre testi sono caratterizzati di essere esempi di un racconto lunare, ellittico, e questo è dovuto al rifiuto (o all’impossibilità) del narratore di dare un senso ultimo nell’interpretare gli avvenimenti. Il non detto e gli interpretativi bianchi, formati nel racconto e che cancellano il senso, producono di conseguenza un andarvieni tra il dicibile e l’indicibile. Questo rivela una specie di « tactique de silence » che partecipa di una dinamica dell’enigma insolubile, dello scandalo intellettuale.
Il punto comune tra queste tre opere, è la descrizione di un oggetto funzionale di natura fantastica : si tratta del corpo ermafrodito di Fragoletto, della statua animata della Vénus e L’uomo della bestia in Lokis. Tale punto, era il l’oggetto su cui sono stati focalizzati molti discorsi esplicativi che rimangono incompiuti : la concettualizzazione problematica di quest’oggetto trasgressivo, non classificabile e incomprensibile, fa nascere una crisi di interpretazione che è in fin dei conti una crisi di parola. Questa parola, si caratterizza di essere inadeguata e deficiente porta al silenzio, e signala così il fallimento della razionalità. Max Picard confessa : « L’homme se tait de soi-même quand il voit un objet pour la première fois » (1954: 55).
Si nota nei tre testi che la rappresentazione testuale di questa crisi esplicativa si presenta sottto forma di una scissione digressiva che oppone un discorso razionalista alla ricerca di efficienza assoluta e un discorso segnato di reticenza e di tacito, che al contrario, manifesta una razionalità tremolante, cosciente dei suoi limiti.
Nei tre testi, si verifica che l’interpretazione termina in un fallimento. Al discorso epistemologicamente ed esteticamente conformista che Hauteville detiene di fronte alla statua di Ermafrodita al museo di Napoli, si oppongono da un lato, l’argomentazione sovversiva di Eleonòra, difendendo la verosomiglianza epistemologica ed estetica dell’Ermafrodita, e dall’altro, il silenzio rivelatore di Camillo che confirma l’interpretazione di Eleonòra, in apparenza irrazionale e inverosimile, e segnala il fallimento del discorso doxal. Davanti alla statua, si spiega la reazione di Hauteville, si sprofonda nel silenzio, e questo è a causa del fatto che ella diventa consapevole della sua propria fisiologia taratologica, però, Hauteville e Eleonòra, impegnati nella loro discussione, non cercano ad analizzare la sua mutezza.
Come lo ritiene Mérimée, la razionalità prudente del narratore pronuncia una parola parsimoniosa : « Je me gardai bien de critiquer son étymologie » Mérimée (1927: 32); « Le matérialisme grossier du docteur me choquant au dernier point, je terminai brusquement l’entretien [...] » Mérimée (1993: 250), ha contrappeso insieme la gnomorrhagie di M. De Peyrehorade e il buon senso fitto dell’accusatore del re in La Vénus d’Ille, ed il materialismo ruvido del medico in Lokis. La parola di Alphonse e del conte, reticente, intramezzata di sospensione, è rivelatrice di una irrazionalità sottostante. La reticenza rappresenta un’interpretazione dell’imbarazzo di un locutore, che porta una razionalità doxal, di fronte ad un fenomeno inspiegabile, validando nello stesso tempo la veracità e la buona fede testimoniale di questa parola, consapevole della sua assurdità apparente, essa rende verosimile l’interpretazione fantastica, come questo esempio nell’opera La Vénus d’Ille di Mérimée (1927: 36) :
-
Vous allez vous moquer de moi... Mais je ne sais ce que j’ai… je suis ensorcelé ! […] Vous allez bien mon anneau ? poursuivit-il après un silence.
-
Eh bien ! On l’a pris ?
-
Non.
-
En ce cas, vous l’avez ?
-
Non… je… je ne puis l’ôter du doigt de cette diable de Vénus.
-
Bon ! Vous n’avez pas tiré assez fort.
-
Si fait… Mais la Vénus… elle a serré le doigt.
In Lokis, si verifica la stessa parola forzata e censurata dalla razionalità, come in questo esempio, Mérimée, (1993) : « J’ai voulu que vous fussiez témoin par vous-même… En votre qualité de savant, vous devez expliquer les énigmes… Pourquoi les animaux ont-ils peur de moi ?
-En vérité, monsieur le comte, vous me faites l’honneur de me prendre pour un Œdipe ». (Mérimée, 1993: 228)
Il narratore, nel suo rifiutare di risolvere l’enigma, svela il suo stato paradossale che si manifesta anche in Fragoletta e La Vénus d’Ille. Di conseguenza della passività interpretativa del narratore si produce una narrazione incompiuta, un senso esploso. La fine del romanzo di Fragoletta è segnata dal silenzio del monaco che rappresenta il solo testimone oculare che possa attestare la natura anormale di Camille, in questo brano di Fragoletta, Latouche (1867) :
[...] quand il eut commencé d’écarter les vêtements qui couvraient la poitrine et les deux blessures encore sanglantes, il tressaillit. Il posa néanmoins à la hâte un premier appareil avant de s’éloigner et il s’éloigna les yeux baissés, le front rouge et le maintient trouble. Le secret de son trouble, la clé de la cellule où respirait encore la victime, le moine ne voulut jamais les confier qu’à son prieur et, le lendemain, au point du jour :
– Mes frères, dit le révérend prieur à deux laïques appelés pour ouvrir une tombe, il faut porter ce cadavre chez les sœurs de la Miséricorde. (Latouche, 1867: 344).
Nel primo racconto La Vénus d’Ille, ciò che segnala la fine è il post-scriptum di una lettera che riceve il narratore dal suo amico M. De P. Il narratore finisce per abbandonare la narrazione, leggendo la parola della fine alla parola degli altri, ad un istanza narrativa anonima che subentra per concludere in modo formale la narrazione, senza elucidare il mistero. In Lokis, il narratore, taglia in modo pulito la sua storia (« Et l’histoire est finie ? demanda Adélaïde, - finie ! répondit le professeur d’une voix lugubre ») Mérimée (1993: 262). Inoltre, la narrazione prende avvio e si conclude su punti di guida, come se fossero destinati a segnare una ruttura originale del senso, una vacuità discorsiva e interpretativa fondamentale che porta all’aporia ed il silenzio, rendendo evidente il fallimento della parola razionale. L’istanza narrativa, tramite il suo rifiuto di conoscere una narrazione incompiuta, garantisce, da contraccolpo, la lettura fantastica degli avvenimenti. (Jeleva, 2017 : 44-45-46)
Le opere di Howard Phillips Lovecraft rappresentano un terreno fortuito da cui si potrebbe raccogliere molti esempi di forme retotiche dell’orrore, quanto la reticenza (è un’operazione di reinterpretare la storia di una tradizione letteraria intera alla luci dei racconti del ciclo di Cthulhu, sub specie Magni Cthulhu ; ma Borges in Les Précurseurs de Kafka (1992: 147), richiama che questo grande scrittore modifica la nostra concezione del passato, dello stesso quando cambia la nostra percezione dell’avvenire : e potrebbe essere lì che risieda una testimonianza inaspettata della grandezza di Lovecraft).
In Lovecraft, i vertici dell’orrore si coincidono quasi costantemente servendosi degli sforzi retorici i più intensi : le parole chiavi che si moltiplicano, le immagini e le metafore che si intervengono, l’autore si procura di mediatrici, così, il grande Cthulhu che si precipita al mare, « à nouveau libre et ivre de joie » (HPL I, 1926: 86) dopo venti milioni di anni di reclusione L’appel de Cthulhu (1926), viene paragonato, in Dagon (1917) al pari di L’appel de Cthulhu (1926), a Polyphème : grazie alla referenza classica, le dimensioni del mostro, almeno, hanno trovato un termine di paragone adeguato. Dello stesso, in Les Montagnes hallucinées (1931), il gesto dei due personaggi principali ritornati per vedere l’orrore che li insegue, supera gli esempi greci e biblici, come si dice nel primo capitolo di L’appel de Cthulhu (HPL I, 1926: 399): « Ni Orphée lui-même ni la femme de Loth ne payèrent plus cher un regard en arrière ». Ed il narratore che prova di condurre il suo aereo dove sono le cime maledetti, spera « avoir les oreilles bouchées à la cire comme les matelots d’Ulysse au large de la côte des sirènes, pour libérer [s] a conscience de cette inquiétante musique du vent » (HPL I, 1926: 403) sempre nel primo capitolo. Anche se lo disprezza Lovecraft, il modo moderno gli offre comunque analogie straordinarie : il shoggoth informe e protoplasmatico che sale il tunnello a caccia di esploratori del polo è :
« un énorme métro lancé à toute vitesse tel qu’on le voit du quai d’une station - son large front noir surgissant, colossal, du plus loin d’un souterrain sans bornes, constellé de lumières étrangement colorées et remplissant le prodigieux tunnel comme un piston remplit un cylindre ». (HPL I, 1926: 400)
Però, appare pericoloso mettere in scena le Grand Cthulhu in carne e ossa (en tentacules et gélatine, si l’on préfère), Lovecraft non lo farà più dopo 1926 ; non che si arrenda alle grandi visioni d’orrore cosmiche, che proseguono a chiarire i suoi racconti delle loro luci pallide e indimenticabili : egli, l’autore, tuttavia sembra che preferisca sempre di più dei mezzi di rappresentazioni indiretti, ciò che non diminuisce in alcun modo, va da sé, l’orrore del « totalment autre ». Passare dall’orrore al ridicolo non conta che un passo, si potrebbe dire : bisogna sapere fino a dove si può andare, prima che l’orrore scompaia. Tutta la carriera letteraria di Lovecraft è marcata dalla necessità di evitare questo passo e il conseguente salto mortale, e certamente, lo spostamento progressivo verso la rappresentazione indiretta dell’orrore cosmico è un sintomo significativo. (Lazzarin, 2004 : 11-12)
In questo contesto, gli esempi sono numerosi, però uno dei primi è lo stratagemma che mira a far scendere Harley Warren nel sottosuolo, mentre Randolph Carter rimane in superficie, ascoltando un apparecchio di trasmissione (Le Témoignage de Randolph Carter) (HPL III, 1919: 56). In questa scena, le prime parole che salgono « de ce sépulcre d’outre-tombe » sono : « Dieu ! si vous pouviez voir ce que je suis en train de voir ! » ; ma precisamente, Carter ed ovviamente il lettore con lui non può vedere ciò che ha visto Warren : non potrà che provocare ad immaginare. Lo stesso caso si riscontra in L’Affaire Charles Dexter Ward (1941), l’assalto fatto alla fattoria di Joseph Curwen viene raccontato secondo il punto di vista della truppa di Eleazar Smith, che « devait rejoindre le rivage et garder le débarcadère contre de possibles renforts » (HPL I, 1941: 151) per lo stregone : questi uomini, non faranno che aspettare ! E gli altri testimonianze ? Tutti indiretti : quello dei Fenner, « qui voyaient de chez eux la ferme condamnée » (HPL I, 1941: 152), ma certamente non l’interiore ; rarissimi documenti scritti ; le dicerie popolari. La parte di coloro che hanno visto, è naturalmente il silenzio, come lo dice questo brano (HPL I, 1941: 152):
Il en fut de même quand ils retrouvèrent d’autres vieux compagnons qui avaient pénétré dans cette zone d’horreur. Ils avaient pour la plupart perdu ou gagné une chose impondérable et indicible. Ils avaient vu, entendu ou senti ce qui n’était pas fait pour des humains, et ne pouvaient pas l’oublier. Il n’y eut de leur part aucun bavardage, car même au plus ordinaire des instincts humains il est de terribles frontières. Et, de ce seul messager, passa aux gardes du rivage une terreur inexprimable qui mit presque un sceau sur leurs propres lèvres.
Un’altra immagine della reticenza nell’opera fantastica è registrata in un’opera romanzesca dello scrittore algerino eloquente Rachid Boudjedra nel suo primo romanzo La Répudiation, pubblicato nel 1969. L’opera riflette in modo chiaro l’ideologia, la personalità dello scrittore, anche alcuni suoi atteggiamenti per quanto riguarda la cultura, la religione e la propria società in cui è nato e cresciuto. Brevemente, l’opera è una specie di critica feroce della società algerina durante l’occupazione francese attraverso il campione di una famiglia di un mercante onnipotente e arbitrario che, il ripudio della sua moglie per sposare un’altra più giovane ha distrutto la sua famiglia e provoca lo smarrimento morale dei suoi figli. La critica del suo ambiente è un’etichetta dello scrittore Boudjedra dalla quale non siè potuto mai liberarsi. Tra le cose che godono di gran valore di un certo peso nella società algerina nonostante le diversità delle sue componenti è la figura mitica. Il ricorso alle figure mitiche ancestrali ad alla tradizione orale come elemento di costruzione di un’identità letteraria moderna rappresenta secondo lo scrittore-poeta e filosofo congolese Valentin-Yves Mudimbe, uno dei paradossi i più portatore del senso di l’ordine del sapere, un ordine al quale i creatori africani non hanno fatto accesso solo finora.
Però nell’atmosfera magrebina, ci sono alcuni esempi come quello di Keblout, l’antenato glorioso, aurealato del suo prestigio immemorabile di combattente e fondatore di nazione (in poeti come Jean Amrouche e Malek Haddad, in scrittori come Kateb Yacine), ma anche Hannibal, di Mokrani, di Abdelkader, di Ben Badis, Amirouche o anche Jugurtha, hanno la misura esatta presa della rilevanza di tali ricorsi ai miti e alle figure popolari nel caso di specie della letteratura del Magreb, in cui il progetto, appena liberarsi dall’occupazione francese potrobbe essere contenuto in quest’idea di « reintegrare la terra attraverso il mito », un’idea che è stata usata da molti autori e per molto tempo.
Così si schiarisce il principio : l’uso ripetuto dei miti porta a astancarli. Fenomeno classico di saturazione. Queste figure ancestrali, ad un certo punto della storia, hanno fondamentalmente bisogno di un riaggiustamento, una nuova lettura adattata alle esigenze contemporanee. In parte, l’opera di Boudjedra viene formata contro l’uso di queste figure mitiche.
E sono note le sue reticenze verso l’uso da parte di un autore della statura di Kateb Yacine della figura mitica dell’antenato di Keblout, e rappresentano più la manifestazione di un tentato omicidio del padre che il segno di un’attenta lettura dell’opera del suo predecessore : « Je me suis insurgé, déclarait-il, contre le mythe des ancêtres considérés comme des êtres exceptionnels et extraordinaires. Kateb a été le promoteur de ce mythe dangereux et malhonnête parce que chauvin et passéiste » (Kangni Alemdjrodo, 2001 : 23). Da qui si segna un ritorno a pochissime figure ancestrali, meno gloriose però non meno funzionali della poesia orale berbera come quella del famoso personaggio di Djoha, il quale appare per la prima volta a Boubjedra in L’Insolation, il romanzo che segue La Répudiation.
3. Todorv : la reticenza nel discorso critico sul fantastico
Certamente, la definizione data dello studioso bulgaro Tzvetan Todorov del fantastico nel suo saggio Introduzione alla letteratura fantastica nel 1970, è la più significativa della sua epoca e che la sua opera, è considerata secondo molti critici come Rosemary Jackson come il saggio critico più importante ed influente sul fantastico del periodo post-romantico, è stato molto pregiato ed apprezzato tra i studiosi del genere attraverso il mondo quando vengono lette le sue definizioni e classificazioni dei generi letterari. Però accanto ai pregi del saggio, si nota alcune omissioni e difetti importanti, ciò che ha suscitato critiche durissime e sdegnose. Todorov definisce così il fantastico :
In un mondo che è sicuramente il nostro, quello che conosciamo, senza diavoli, né silfidi, né vampiri, si verifica un avvenimento che, appunto, non si può spiegare con le leggi del mondo che ci è familiare. Colui che percepisce l’avvenimento deve optare per una delle due soluzioni possibili : o si tratta di un ‘illusione dei sensi, di un prodotto dell’immaginazione, e in tal caso le leggi del mondo rimangono quelle che sono, oppure l’avvenimento è realmente accaduto, è parte integrante della realtà, ma allora questa realtà è governata da leggi a noi ignote. [...]
Il fantastico [le fantastique] occupa il lasso di tempo di questa incertezza ; non appena si è scelta l’una o l’altra risposta, si abbandona la sfera del fantastico per entrare in quella di un genere simile, lo strano [l’étrange] o il meraviglioso [le merveilleux]. Il fantastico è l’esitazione [l’hésitation] provata da un essere il quale conosce soltanto le leggi naturali, di fronte a un avvenimento apparentemente soprannaturale. [...]
Il fantastico dura soltanto il tempo di un’esitazione : esitazione comune al lettore e al personaggio, i quali devono decidere se ciò che percepiscono fa parte o meno del campo della « realtà » quale essa esiste per l’opinione comune. Alla fine della storia, il lettore, se non il personaggio, prende comunque una decisione, opta per l’una o l’altra soluzione e quindi, in tal modo, evade dal fantastico. [...]
La vita del fantastico è quindi irta di pericoli, ed essa può svanire in qualsiasi momento. Più che essere lui stesso un genere autonomo, pare che si ponga alla frontiera fra due generi, il meraviglioso e lo strano. Uno dei grandi pericoli della letteratura soprannaturale, quella del romanzo nero (« the gothic novel »), sembra offrirne la conferma. Si distinguono infatti, all’interno del romanzo nero, due tendenze : quella del soprannaturale spiegato (si potrebbe dire dello « strano »), come lo si trova nei romanzi di Clara Reeves e di Ann Radcliff, e quella del soprannaturale accettato (o del « meraviglioso ») che include le opere di Horace Walpole, di M. G. Lewis e di Maturin. [...]
Niente ci vieta di considerare il fantastico come un genere sempre evanescente. Del resto, una categoria simile non avrebbe niente di eccezioanle. La definizione classica del presente, ad esempio, ce lo descrive come un punto limite fra il passato e il futuro. Il paragone non è gratuito : il meraviglioso corrisponde a un fenomeno ignoto, ancora mai visto, di là da venire : quindi a un futuro. Nello strano, invece, l’inesplicabile viene ricondotto a fatti noti, a un’esperienza precedente e, di conseguenza, al passato. Quanto al fantastico vero e proprio, l’esitazione che lo caratterizza non può evidentemente situarsi che al presente (Todorov, 1970 : 28-45-46)
Remo Ceserani e Rosemary Jackson sono tra i più importanti critici del saggio di Todorov. Il primo nel suo libro Il fantastico, ha fatto uno studio del fantastico trattando molti lati del genere e mostrando anche i punti positivi e negativi della definizione di Todorov. La seconda, nel suo libro Il fantastico, la letteratura della trasgressione, precisa che il suo nucleo è un tentativo di allargare le idee di Todorov ad uno studio del fantastico basato ampiamente sulla cultura ; in quanto lui ha ridotto la sua indagine all’area della poetica del fantastico.
Quanto ai difetti notati nella definizione di Todorov, secondo Remo Ceserani, c’è un gran numero di critici che si sono messi d’accordo sul fatto che la definizione del bulgaro è troppo astratta, troppo restrittiva, troppo semplice e chiara, perché in cui si sente solo il prevalere degli interessi in quel momento strettamente linguistici e retorici, « strutturalisti », a scapito dei lati che riguardano la storia e l’antropologia della letteratura. (Ceserani, 1996 : 52-53)
In più, Todorov quando ha voluto collocare il fantastico distinguendolo dal « meraviglioso » e dallo « strano », non l’ha fatto in modo chiaro, ma ha dato l’impressione di essere ricorso all’uso di astratte categorie retoriche (ma in parte anche psicologiche), e le distinzioni a cui si ricollegava erano quelle circolate tra i praticanti e gli estimatori del genere già a partire dall’Ottocento. In più, ha inserito nella sua definizione la definizione data da Sigmud Freud del “perturbante”, come esperienza di una presenza inquietante nella quotidianità e di ritorno nell’età adulta di un trauma e di un’angoscia infantile rimossi, ignorandone così e volutamente le implicazioni di psicologia profonda.
Per Rosemary Jackson, il saggio sul fantastico di Todorov in quanto fa parte della maggioranza della critica strutturalista non è privo di omissioni e di lacune, come la non considerazione delle implicazioni sociali e politiche delle forme letterarie, non solo questo, anche c’è un punto molto importante tralasciato nel suo libro, di cui molti critici vedono che avessi il merito di essere studiato, è il punto che riguarda le implicazioni psicoanalitiche e l’interpretazione psicoanalitica dei testi, perché il fantastico in letteratura tocca l’area dell’inconscio con modo manifesto e ripetuto, e ciò rende essenziale ricorrere alla psicanalisi per capirlo, è questa la base del rapporto tra fantastico e psicanalisi. Il rifiuto di Todorov delle teorie freudiane perché le ha considerate inadeguate e irrilevanti, è legato al suo tralascio delle questioni politiche ed ideologiche, così questi fatti insieme rappresentano il punto morto più importante del libro di Todorov. (Jackson, 1986 : 5).
Conclusione
Senza dubbio, la reticenza nel campo letterario, in quanto forma retorica adottata dagli scrittori, costituisce una tecnica stilistica sotto forma del silenzio, dell’indicibile, dell’implicito, del non rappresentabile e del parlare indiretto.
In modo particolare, nel genere fantastico, la reticenza era stata sempre una scelta degli scrittori soprattutto nall’Ottocento, secolo emblematico del fantastico e in modo abbondante il racconto dell’orrore, il sottogenere fantastico che rappresentava lo stampo in cui la reticenza si è manifestata più spesso.
Perché il discorso letterario è caratterizzato di essere allegorico e significativo, gli obiettivi di questi scrittori nel sfruttare la reticenza sono vari : da un lato, lo scrittore nel suo impegno di scrivere, il suo modo di comunicare con l’altro, cioè il lettore non debba essere diretto, nel di liberarlo, nel senso di aprire totalmente il cerchio del senso, stendendo così la pratica della significazione, ciò che risulta così da questa operazione è la libertà dei significati che scappano ai percorsi interpretativi. Dall’altro lato, sicuramente, attraverso questa tecnica della reticenza, gli scrittori mirano provocare l’immaginazione del lettore lo spingendo ad intendere tramite la scoperta, scoprire i sensi, i significati, il sottinteso, le intenzioni e le emozioni, senza dimenticare una caratteristica maggiore del fantastico che è il commuoversi del lettore mettendosi nei panni del personaggio, provando quasi gli stessi sentimenti.
Ma la reticenza, è un fenomeno che non si nota solamente nelle opere fantastiche, è registrato anche nel discorso critico sul genere, Tzvetan Todorov, uno dei maggiori studiosi del fantastico nel XX secolo ne è un chiaro esempio. Il suo saggio Introduzione alla letteratura fantastica nel 1970, è stato criticato per le sue omissioni nel definire il fantastico e anche nella non considerazione delle implicazioni psicoanalitiche, ma si deve dire che quelle sue omissioni erano volute, e che rappresentavano la base e la piattaforma su cui sono stati avanzati molti studi e definizioni del fantastico.
“Il romanzo delle stragi” è un’opera di Pier Paolo Pasolini in cui, egli esprime il concetto del sapere senza prove e neppure indizi e anche senza potere, così il caso della parola indiretta della letteratura, questa forma del tacere, allusiva, parodica, ironica, questa forma di riso ridotto, può essere che oggi, afferma maggiormente i diritti dell’alterità contro l’omologazione all’identità della comunicazione del silenzio. E nei confronti di questo silenzio, questa pratica del tacere rappresenta una forma dominante.