Introduzione
“Tutto il mondo è un palcoscenico. E tutti gli uomini e tutte le donne non sono che attori...”. Così il grande drammaturgo inglese William Shakespeare in Come vi piace ha definito il teatro. Infatti, quest’ultimo è una delle arti più vicine alla realtà in cui viviamo, e viene considerato il microcosmo della vita, che la rappresenta così come è e non come dovrebbe essere. Perciò, possiamo dire che il teatro, precisamente quello italiano, ha sempre avuto uno stato testuale particolare, dato che, quello che è scritto sul copione viene presentato pure sui palcoscenici. Quindi, si nota che dai tempi antichi, i più grandi drammaturghi italiani tentavano di allontanarsi dal modello letterario, cercando una lingua più comprensibile a tutti ed indirizzata agli appartenenti di qualsiasi ceto sociale. Pertanto, si legge che ogni personaggio usa un lessico proprio del suo stato sociale. Come ha affermato Andrea Perrucci uno dei teorizzatori della Commedia dell’Arte, che la diversità delle lingue dà un grande diletto alle commedie, lo seguiva pure uno degli esponenti del teatro italiano di tutti i tempi, Carlo Goldoni, su cui il linguista Claudio Giovanardi ha affermato che nell’opera teatrale goldoniana, l’italiano ed il dialetto non si oppongono radicalmente ma piuttosto tendono ad incontrarsi, cioè, egli si interessava al plurilinguismo nella stesura delle sue commedie in modo che tutti potevano intenderle, visto che nel Settecento il pubblico del teatro è diventato più numeroso e nel punto di vista sociale era eterogeneo. L’autore veneziano, in una lettera scritta agli associati dell’edizione Paperini, ha dichiarato che :
I miei libri non sono testi di lingua, ma una raccolta di mie commedie ; che io non sono Accademico della Crusca, ma un poeta comico che ha scritto per essere inteso in Toscana, in Lombardia, in Venezia principalmente [...], e che, essendo la commedia un’imitazione delle persone che parlano più di quelle che scrivono, mi sono servito del linguaggio più comune, rispetto all’universale italiano.1
1. La lingua del teatro eduardiano
Infatti, pure il teatro italiano del Novecento ha conosciuto diversi autori che si interessavano alla combinazione fra lingua e dialetto, ossia, alle mescolanze linguistiche. Tra i quali ci sono : Raffaele Viviani, Luigi Pirandello, Eduardo De Filippo e Dario Fo...
Nel corso di questa ricerca, mettiamo in esame il teatro del noto attore-autore-regista napoletano, Eduardo De Filippo (1900-1984), uno dei principali rappresentanti non soltanto del teatro napoletano ma di tutto il teatro italiano del Ventesimo secolo, esso è considerato un figlio d’arte, dato che è nato e cresciuto tra gente di teatro, da un padre che era un commediografo partenopeo, Eduardo Scarpetta, e fra due attori di fama nazionale, la sorella Annunziata detta Titina ed il fratello Giuseppe detto Peppino, che sono cresciuti insieme formando una carriera teatrale di grande valore. La sua prima comparsa sui palcoscenici risale a quando aveva quattro anni, come giovanissimo attore in una commedia scarpettiana La Gheisha 1904. Mentre la sua carriera teatrale come autore è iniziata da quando aveva Venti anni. Essa copriva un arco di tempo molto vasto (1920-1973), più di un mezzo secolo. Dal 1920 la data della pubblicazione di Farmacia di turno, fino al 1973 l’anno della composizione dell’ultima commedia Gli esami non finiscono mai. L’autore partenopeo ha diviso il suo teatro in due raccolte, le opere che risalgono a prima e durante la Seconda guerra mondiale, cioè dal 1920 al 1942, sono raggruppate in “Cantata del giorni pari” che contiene 17 commedie. Invece le opere che appartengono alla seconda raccolta, e che sono scritte dal secondo dopoguerra 1945 fino al 1973, sono raggruppate in “Cantata dei giorni dispari”, contenente 22 commedie.
Questo presente articolo mira ad analizzare alcune commedie eduardiane sul piano linguistico, provando a rispondere alla problematica, che potrebbe essere articolata intorno a questa domanda :
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In quale lingua era introdotto il teatro del secondo dopoguerra di Eduardo De Filippo ?
2. L’alternanza tra lingua/dialetto
La nostra scelta ricade sull’analisi di tre commedie eduardiane, vale a dire : Napoli milionaria ! 1945, La paura numero uno 1950 e Mia famiglia 1955, appartenenti alla “cantata dei giorni dispari” e che sono scritte dopo la seconda guerra mondiale, in cui l’autore ha segnato una svolta nei temi e nei contenuti, avvicinando di più alla realtà ed alla rivelazione degli aspetti oscuri della società (famiglia) del periodo. La scelta di questi tre copioni esclude automaticamente la produzione eduardiana del periodo prebellico, cioè, quelle commedie appartenenti alla “cantata dei giorni pari”.
Eduardo De Filippo ha sempre preso in considerazione l’affinità tra lingua e dialetto, egli attraverso le sue opere sopraccitate non rappresenta una sola tradizione popolare oppure una specifica classe sociale, ma le sue rappresentazioni variano secondo il contesto e della realtà su cui voleva scrivere, perciò il linguaggio che usava nei testi non era affatto unico. Insomma, si legge nelle sue opere l’uso di una miscela tra l’italiano e il napoletano per vari obiettivi, tra cui, citava l’autore : « Lo sforzo di tutta la mia vita è stato quello di cercare di sbloccare il teatro dialettale portandolo verso quello che potrei definire, grosso modo, Teatro Nazionale Italiano. »2 Da questa citazione, possiamo identificare l’obiettivo dell’autore dietro quest’ampio uso del plurilinguismo che era molto palese ; è quello di aprire le porte al teatro dialettale napoletano verso un teatro nazionale italiano. Nel senso che il suo teatro diventa comprensibile al di fuori del territorio locale (napoletano). In altre termini ; questo desiderio di trasformare il suo teatro che è stato confinato soltanto a Napoli verso uno nazionale, l’aveva stimolato a creare un modello di comunicazione più chiaro e comprensibile per tutta l’Italia, superando le barriere dialettiche ma senza rinunciare il suo dialetto che l’ha sempre considerato un patrimonio primario.
Anche se nell’Italia del secondo dopoguerra, l’italiano si estendeva progressivamente, egli però non ha scartato il dialetto dalle sue commedie, considerando l’uso unico della lingua letteraria è come un carcere per il suo teatro. Anzi, entrambi convivono ed interagiscono a seconda della classe sociale a cui appartiene il personaggio e della situazione comunicativa in cui si trova. Si nota da un canto, l’uso dell’italiano di livello discorsivo basso per avvicinare verso un discorso realistico, e dall’altro canto cercava di rendere il dialetto usato in modo più chiaro, togliendo i termini che possono risultare oscuri per il pubblico non napoletano. Confermava Eduardo durante una lezione di teatro, apostrofando :
Ci sono tanti linguaggi da usare in teatro che fanno sempre parte della lingua usuale, della lingua parlata. La lingua letteraria è un’altra cosa, ed io ritengo che sia sempre un carcere per il teatro. Bisogna adattare la lingua secondo il tema, il componimento e l’ambiente che trattiamo. Non esiste un linguaggio unico per il teatro ; senza aggiungere poi che è anche un linguaggio personale.3
In questo caso, possiamo fare un appello alla teoria di Michail Bachtin, la Polifonia, in cui ha parlato dell’opera (sia teatrale che letteraria) come un genere aperto che si mescola nella sua struttura interna tra classi diverse e lingue multiple (multilinguismo), in modo che la diversità linguistica rappresenta la caratteristica essenziale del discorso narrativo. Quindi, secondo Bachtin, all’interno dell’opera o del romanzo, il personaggio esprime il suo punto di vista sul mondo con la propria lingua, con la quale offre una personale valutazione del mondo in cui abita.
Se prendiamo in considerazione la prima commedia Napoli milionaria ! (1945), con cui Eduardo De Filippo ha avviato la sua seconda raccolta “Cantata dei giorni dispari” e che viene considerata una delle commedie più rappresentative del suo teatro, si legge nel suo testo una variabilità di usi comunicativi tra la lingua italiana ed il dialetto napoletano. Infatti, la sua prima parte è svolta durante la guerra, dove non soltanto Napoli ma tutta l’Italia era immersa nella povertà, la disoccupazione e nell’analfabetismo, quindi, nella città partenopea non tutta la gente era in grado di esprimersi in italiano e preferiva l’uso del napoletano nei propri discorsi, Tranne coloro che avevano un certo livello di conoscenze che erano veramente pochi, c’è ad esempio ; il personaggio Riccardo Spasiano, un ragioniere, benestante, modesto e dignitoso, che spesso usava l’italiano ma a volte cambiava il suo linguaggio verso il napoletano e ciò succede a seconda della situazione o della persona a cui si rivolgeva. Pertanto, in questa prima parte, si nota che il dialetto è stato usato più della lingua, e questo viene confermato già dal primo termine con cui l’autoreha aperto la didascalia del primo atto, usando « ‘O vascio e Donn’ Amalia Jovine »4, invece di dire il basso di donna Amalia.
In una scenetta del protagonista di Napoli milionaria ! (1945) Gennaro Jovine, un ex operaio e disoccupato a causa della guerra, vediamo la presenza del bilinguismo nei suoi discorsi, come in questa seguente citazione : mentre stava parlando in napoletano, lo ha subito cambiato in italiano, soprattutto quando si tratta di argomenti importanti come quelli politici ; la guerra, le leggi, il calmiere. Per Gennaro l’obiettivo dell’uso d’italiano quando parlava era per dare un tono serio a quello che diceva :
« GENNARO: ‘E prufessure pigliano pruvvedimente pe’ cuntolloro e ‘o popolo piglia pruvvedimente pe’ cuntosuio. [...] Perché il calmiere è una delle forme di avvilimento che tiene il popolo in soggezione e in istato di inferiorità. Il mio disegno di legge sarebbe quello di dare ad ognuno una piccola responsabilità che, messe insieme, diventerebbero una responsabilità sola, in modo che sarebbero divisi in parti uguali, onori e dolori, vantaggi e svantaggi, morte e vita, Senza dire : io sono maturo e tu no ! »5
Ma questo discorso non è stato per niente comprensibile a certe persone analfabete, come nel caso del personaggio Peppe O Cricco che è (un mariuolo) un ladro di pneumatici, che alla fine, è rimasto chiuso senza capire niente di quello che diceva Gennaro, e rispondeva : « PEPPE : (confessa, candidamente) Don Genn’, io nun aggio capito niente… »6
Nella seconda parte dell’opera, ambientata durante lo sbarco degli alleati, il dialetto napoletano si incontra con una lingua straniera e questo si nota quando la figlia Maria Rosaria, ha avuto una relazione con un soldato americano e nelle conversazioni della figlia con le sue amiche che pure loro avevano relazioni simili, usavano delle parole inglesi :
“TERESA : pecchéaccusì bello, sinceramente. M’ ‘o ddicettenfaccia : ‹‹Tua frenda più nais !›› Io rispunnette : “Okei ! ” ‘A sera putraie n’atufrend suo casùbbeto s’annammuraie ‘e me e a me me piaceva più di lui e ce mettèmo d’accordo Io poi lledicette : « ci ho una frenda mia, che sarebbe Margherita (la indica), non ci hai un frendo tuo ? » Isso « o purtaie e accussìavimo fatto tre freind e tre freende »7
In questa prospettiva, Eduardo voleva mettere in evidenza, il momento in cui sono sbarcati gli alleati a Napoli, in quel periodo si sentiva spesso nelle strade qualche parola di origine inglese. Quindi, si può dire che, la scelta dell’uso linguistico e dell’integrazione di queste parole straniere nel testo, non era così spontanea dall’autore, bensì, questa nasce da un rapporto con una realtà storica determinata. In altri termini ; questi usi linguistici sono generalmente condizionati dall’ambiente storico-sociale in cui vivevano.
L’alternanza fra lingua/dialetto torna di nuovo in una conversazione fra Amalia la moglie di Gennaro con il suo socio negli affari Errico Settebellizze, allo stesso tempo suo corteggiatore. Notiamo che quando si tratta di soggetti sentimentali, la donna si esprime in napoletano puro, ma quando si tratta di affari e del lavoro Amalia prova ad usare la lingua italiana malgrado non la padroneggi bene e lo possiamo considerare come un italiano napoletanizzato, sebbene ella sia dialettofona, ma ciò non toglie importanza all’idea della variazione linguistica nei personaggi a seconda del tipo degli argomenti trattati. E questo è stato identificato in questa seguente citazione :
« AMALIA: (disponendosi a formulare un serio discorso, da tempo maturato) Sentite, Settebelli’... Voi sapete se io vi stimo e se ci ho o non ci ho una simpatia per voi... Anzi sento un trasporto così reciproco che alle volte mi sento a voi vicino che mi guardate con gli occhi talmente assanguati, ca me pigliasse a schiaffi io stessa, talmente ca desiderasse che la fantasia fosse lealdà... (Errico abbassa gli occhi triste. Amalia incalza) La società che ci abbiamo[...] ci ha fatto guadambiare bene... e ringraziammo Dio... (Conseguenziale) perché dobbiamo commettere il malamente ? Io tengo na figlia grossa... E Gennarino ? »8
Nell’ultimo atto della stessa commedia, si sente un miglioramento nell’uso d’italiano tra i personaggi. Oltre al ragioniere Riccardo che è apparso di nuovo, ma questa volta usando la lingua italiana nella maggior parte dei suoi discorsi, e il dottore che è venuto a curare la piccola figlia Rituccia, che si rivolgeva spesso al resto con un italiano fluente e questo rifletteva il suo livello sociale. C’era un lungo dialogo tra il brigadiere Ciappa ed il pater familias Gennaro, che mostrava una compenetrazione tra la lingua e il dialetto, ma questa volta sembra diverso da quelli che abbiamo visto prima, si nota la presenza dell’italiano più del napoletano, e ciò indica il miglioramento che ha provato la società nella sua vita quotidiana, grazie al cambiamento epocale originato dal tragico periodo di guerra e dal postbellico dove si respira un po’ di apertura. Riportiamo qui di seguito, due brevi conversazioni, da cui, possiamo distinguere la differenza tra il linguaggio usato all’inizio della commedia e come è diventato alla sua fine, sempre sotto la voce degli stessi due personaggi. Nella prima, notiamo che è generalmente priva dell’uso della lingua italiana rispetto al dialetto napoletano che ha ottenuto la maggior parte del dialogo :
« CIAPPA : [...] Bravo ! Overamente bravo ! Tu nunsi’muorto ‘o saccio. Ne so’ sicuro. Sott’ ‘o lietto tiene ‘o contrabbando. Ma nunt’arresto ! Ma damme ‘a suddisfazione ‘e temòvere. Nunfaccio manco ‘a perquisizione... si te muove, nun t’arresto... Parola d’onore!
GENNARO: E allora si m’arrestate site na carogna! »9
Mentre nella conversazione che segue, notiamo il contrario di quello che si è visto precedentemente :
« CIAPPA : Io da quando feci la sorpresa in casa vostra, mi sono sempre ricordato di voi con una certa simpatia. Diverse volte sono passato pure da qua, durante il tempo che siete stato assente, e ho domandato sempre notizie vostre.
GENNARO: Capisco, brigadie’, capisco tutto e vi ringrazio. Quello che mi avete detto nei riguardi di mio figlio Amedeo, in un altro momento m’avarria fatto ascì pazzo e chi sa comme me sarria regolato. »10
Per quanto riguarda la seconda commedia, La paura numero uno (1950), che sembra, sul piano linguistico, come una continuazione della fine della commedia precedente (Napoli milionaria !) dove si è già notato l’uso frequente della lingua italiana rispetto al dialetto napoletano nella comunicazione tra la maggior parte dei suoi personaggi. In questa seconda opera, invece, l’italiano si presenta ancora di più, e si vede sin dall’inizio il suo uso intenso. Ciò, indica che l’uso dell’italiano aumenta con il passare del tempo. Dato che La paura numero uno è ambientata pochi anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, ed il protagonista Matteo, il capo della famiglia Generoso era l’amministratore del palazzo in cui abita, il che, gli permetteva di vivere in una situazione economica più che accettabile. Tuttavia, questo non significa che l’autore abbia abbandonato il suo dialetto napoletano, ma lo troviamo sempre collegato con l’italiano, superando ogni forma di separazione. Anzi, esso viene adoperato anche se in una piccola percentuale rispetto a quanto accadeva prima. Notiamo, ad esempio, la presenza di alcune caratteristiche specifiche del dialetto, come la caduta della lettera “L” nell’uso degli articoli in napoletano ; ‘o, ‘a al posto di “il” e “la”, le preposizioni ; cu’ “con”, ‘e “di”, c’erano anche gli aggettivi dimostrativi come chillo invece di “quello”, chesto invece di “questo”,e pure la presenza delle forme pronominali, nuie “noi”, vuie “voi”, ecc.
Come viene accennato prima in Napoli milionaria !, quando un personaggio vuole esprimere un sentimento, ricorre subito all’uso del dialetto, e ciò è dovuto alla natura umana. Questo punto, torna anche qui, con Matteo che, a suo vedere, stava vivendo un periodo molto delicato del dopoguerra che gli appariva insicuro, dominato dalla paura dello scoppio di un’altra guerra, quindi, lo troviamo spesso a parlarne con tutte le sue emozioni :
« Io n’ata guerra nun ‘a faccio ! Nun ‘a faccio ! Noi si può dire che da poco ci siamo ripresi, ci siamo messi un poco a posto... Ca puzzate iettà ‘o sango! Accummèncianon’ata vota cu’ ‘o sfollamento ?... Io ‘a poco aggio fatto biancheggià ‘a cucina... Le lenzuola me l’aggio accattate fresche fresche... ‘e matarazze, tutta lana di Scozia... Ogni fiocco di lana è una pecora scozzese... Poveri matarazzi miei... Virgi’, ci siamo. »11
Quello che abbiamo osservato, a differenza di quanto accennato in precedenza, è che l’uso del dialetto tra i giovani è diminuito, essi preferivano l’uso dell’italiano nella maggioranza dei loro discorsi, tranne certi giovani che non erano in grado di utilizzarlo a causa del loro livello di istruzione, come ; il personaggio di Antonio che è un ex militare durante la guerra appare come una persona sciocca, c’era pure la cameriera di casa Generoso, Vincenza, che spesso esprime in napoletano, come vediamo, ad esempio, in questo dialogo :
« VINCENZA: E ce aggi’ ‘a mettere ‘e camise pronte.
MATTEO : è momento ‘e penzà ‘e cammise ? Piglia le valige !
Vincenza: ‘O signore vo’ ‘e valige. »12
Alla fine della commedia, si legge che l’uso del dialetto napoletano è (non del tutto) quasi sparito. Dall’altra parte, si nota la presenza quasi totale dell’italiano tra i personaggi. E ciò riflette il linguaggio che era più usato nei discorsi della gente partenopea all’inizio degli anni cinquanta.
La scelta di analizzare le tre commedie eduardiane sopraccitate non è casuale, ma piuttosto è il risultato di uno studio approfondito dell’intera produzione eduardiana. Come abbiamo visto prima, l’inizio della seconda commedia La paura numero uno (1950) rappresenta la fine della prima Napoli milionaria ! (1945), quindi, eccoci di fronte alla terza e l’ultima commedia Mia famiglia (1955) che appare come una conclusione di tutte e tre.
Così come è stato già visto in La paura numero uno, anche in Mia famiglia si è notato che l’uso del napoletano è diventato raro, visto che l’italiano si è esteso sempre di più nella metà degli anni cinquanta, quando viene ambientata l’opera, in cui il paese era alla vigilia degli anni del Miracolo economico. Quindi, la gente ha conosciuto un certo sviluppo da tutti i lati, ed il dialetto in quel periodo viene parlato da persone meno istruite come la cameriera della famiglia Stigliano, Maria, oppure da quelli che provengono dalle zone di campagna come Michele Cuoco e sua moglie Carmela.Vista la forte presenza della lingua italiana in quest’opera, abbiamo voluto focalizzare nella nostra analisi su come e, dove l’autore ha introdotto il suo dialetto napoletano che è stato veramente indispensabile per lui.
Proviamo a mettere in evidenza uno dei punti più essenziali per Eduardo, dato che è stato ripetuto in tutte le opere, si tratta dell’uso del dialetto napoletano che serve a dare più intensità ai sentimenti dei personaggi partenopei, cercando un conforto nelle loro radici. Il che, si vede quando Elena, si sente stanca del silenzio del marito che a causa di un dispiacere è diventato muto e le manca la voce. Essa si rivolge a lui in dialetto quando prova ad esprimere i suoi sentimenti : « ELENA : (al marito) E sei stato dal medico ? (Alberto accenna di sì). E ti ha dato buone notizie? (Alberto c.s.). Non per niente. Grazie a Dio il lavoro mio va bene, e non ci manca il pane [...] E poi, mi credi ? Io ‘a voce toianun m’ ‘a ricordo. »13 Ciò, viene confermato dall’autore, pure nella fine della commedia in un discorso intimo svolto sempre tra Elena e Alberto che ha ripreso la parola, pronunciando :
« ELENA : (con il cuore pieno di speranza) E dimane, t’aspetto ?
ALBERTO : (incerto) Movedimmo...
ELENA : (girando lo sguardo intorno come per mostrare ad Alberto tutto ciò che lo circonda) Albe’, chesta è ‘a casa toia.
ALBERTO : (con un lieve sorriso ironico, ma con una infinita tenerezza) ‘A casa mia... (Poi con un ammiccare degli occhi e un breve cenno del capo che vuole significare un promettente ‹‹sì›› ripete ancora una volta) Statte bbona ! »14
Come abbiamo menzionato prima, i giovani di allora si trovano a parlare l’italiano più del napoletano nella loro vita quotidiana, ma in realtà sono rimasti sempre affezionati verso il loro dialetto, e questo viene sottolineato dall’autore, quando parlava il giovane napoletano Guidone, ha usato il termine “frocoleaténne”, dichiarando la sua grande ammirazione al loro dialetto, egli diceva :
« GUIDONE : (pronto) Quello che ho detto io. Beppe, senti a me, frocoleaténne. (Ripensando all’espressione dialettale che gli è venuta alle labbra, socchiude gli occhi estasiato, ripronunciando la parola per assaporarne tutto il gusto che gliene viene, ogni qual volta può dimostrare agli altri quale raffinato conoscitore egli sia di battute, frasi e motti partenopei) Frocoleaténne ! Sentite, io credo che non ci sia al mondo nessun altro dialetto capace di poter esprimere qualunque sensazione e stato d’animo : frocoleaténne !... come se il mondo si frantumasse in minutissime scaglie di mica... come se un’enorme torta millefoglie sparpagliasse felice le sue squame profumate alla vaniglia sulla tela di Penelope... La parola ha in se stessa una miracolosa scala musicale, ricca di semitoni e di bemolli. Frocoleaténne ! (traducendo in lingua) lascia che il mondo caschi, non te ne dare per inteso... (E conclude convinto) Io so’ pazzo p’ ‘o dialetto nostro. »15
Nella stessa citazione, e nella stessa sequenza discorsiva, ci troviamo sempre davanti ad una palese alternanza tra lingua e dialetto (la cui conferma il multilinguismo eduardiano), mentre il personaggio inizia il suo discorso in italiano, lo conclude in napoletano. Su questo punto di interferenza linguistica, concludiamo con la dichiarazione di un insegnante di storia della lingua italiana all’università di Napoli Federico II, Nicola De Blasi, sottolineando che :
« In questa variegata gamma di punti di vista (il dialetto come lingua affettiva, o in interferenza involontaria con l’italiano, o ancora osservato e apprezzato da chi se ne dichiara appassionato) sono testimoniate alcune delle percezioni e valutazioni del dialetto che costantemente è possibile tuttora osservare in una città dagli usi linguistici tutt’altro che uniformi. »16
Conclusione
Alla fine possiamo dire che il linguaggio che è stato introdotto da Eduardo De Filippo nelle sue tre commedie postbelliche Napoli milionaria ! (1945), La paura numero uno (1950) e Mia famiglia (1955), non era affatto uniforme, bensì, una chiara alternanza tra la lingua italiana ed il dialetto napoletano che varia a seconda della classe sociale a cui appartiene il personaggio e dalla situazione comunicativa in cui si trova. Questa varietà linguistica secondo Eduardo dà al teatro una visione completamente realistica della vita, invece di usare unicamente la lingua letteraria che lo rende come una prigione. Perciò, vediamo che il linguaggio usato, muta a seconda del contesto storico-sociale del periodo in cui sono state scritte le commedie.