Introduzione
In seguito alla caduta del fascismo con l’armistizio del settembre 1943, nell’Italia settentrionale fu fondato il Comitato di Liberazione Nazionale che guidava la cosiddetta ʺResistenza partigianaʺ contro l’occupazione tedesca e la Repubblica di Salò fondata da Benito Mussolini. Nella lotta partigiana ci fu anche una forte presenza femminile. In nome della libertà nazionale, molte sono le donne che, tra 1943 e 1945, parteciparono alla lotta contro il nazifascismo.
Tale contributo venne trattato non solo dai libri di storia ma anche dalla letteratura neorealista che fu arricchita anche da grandi scrittrici. Infatti, dall’inizio della lotta partigiana fino al secondo Dopoguerra, molti romanzi furono dedicati alla partecipazione delle donne alla Resistenza. Talvolta, i romanzi che girano intorno alla donna partigiana sono scritti dalle stesse donne che parteciparono a quella lotta. È proprio il caso della scrittrice Renata Viganò che scrive il romanzo L’Agnese va a morire in cui ha parlato della propria partecipazione alla Resistenza.
In questo articolo cerchiamo principalmente di mettere in evidenza i diversi ruoli assunti dalle donne in quel periodo facendo approfondimenti anche a livello storico e sociale. In questo modo, proviamo a rispondere alla seguente problematica: Alla luce dell’opera della Viganò, qual è il ruolo della donna nella Resistenza partigiana?
1. Contesto storico: Dal fascismo alla Resistenza partigiana
In Europa, il periodo storico compreso tra le due Guerre mondiali è caratterizzato dai cosiddetti «totalitarismi» che, nella maggioranza, sono nati a causa degli effetti della Grande guerra. Il fascismo è così un regime totalitario che ha dominato la storia d’Italia per ben vent’anni (il Ventennio fascista). Uno dei motivi della sua caduta nella 2GM è il movimento partigiano.
1.1. La Repubblica di Salò
In seguito all’armistizio dell’8 settembre 1943, Mussolini ha perso ufficialmente il potere quando il re Vittorio Emanuele III ha affidato tutti i poteri al generale Badoglio. Era l’inizio di una guerra civile che durava fino al 1945. Ancora una volta, l’Italia torna ad essere divisa in due parti:
«8 Settembre 1943 […] segna l’inizio della guerra civile che insanguinò l’Italia quando ʺera tagliata in dueʺ (secondo un’incisiva definizione di Benedetto Croce), con la Repubblica Sociale di Mussolini a Nord tenuta in vita dai tedeschi e il Regno del Sud di Vittorio Emanuele III che godeva del sostegno degli Alleati.» (Montanelli & Cervi. 2006: 1)
Infatti, la rapida avanzata degli Alleati ha provocato anche una rapida sconfitta della dittatura del Duce che veniva incarcerato a Roma. Tuttavia, dopo una brevissima prigionia, Mussolini è stato liberato dai paracadutisti tedeschi: «La liberazione di Mussolini […] restituì al fascismo il suo capo, sia pure avvilito e diminuito dalla sconfitta e dalla prigionia.» (Montanelli & Cervi. 2006: 33)
Nell’Italia del nord, insieme ai grandi gerarchi del Regime e grazie all’appoggio nazista, il Duce poteva riprendere a combattere, tant’è vero che «con Mussolini la Repubblica di Salò poté vantare una continuità e una legittimità.» (Montanelli & Cervi. 2006: 33). In realtà, la fondazione della Repubblica Sociale Italiana da parte del Duce aveva come scopo resistere all’avanzata alleata provando a recuperare i territori persi (Sud e Centro della Penisola).
Con la Repubblica di Salò, le forze nazifasciste operavano violentemente contro sia partigiani che civili. Infatti, oltre a vendicarsi o bloccare ogni tentativo di resistenza, le azioni militari avevano anche lo scopo di intimidire la popolazione civile: «Altre volte il massacro non è una vendetta o una punizione. È un modo per umiliare e terrorizzare il vinto, imporre un dominio, fiaccare qualsiasi forma di resistenza.» (Cazzullo. 2015: 182) Le violenze dei nazifascisti commesse nei tempi della Repubblica di Salò «A volte sono rappresaglie. A volte sono stragi fini a se stesse, per terrorizzare i civili. Sempre sono crimini contro l’umanità.» (Cazzullo. 2015: 181)
Tuttavia, dietro il sostegno nazista al Duce c’è anche l’obiettivo Hitleriano di opporsi agli Alleati. La liberazione di Mussolini «consentì a Hitler di avere in Italia un vassallo di grande prestigio […] senza Mussolini, i tedeschi avrebbero dovuto affidarsi a un qualsiasi screditato e servile Quisling locale.» (Montanelli & Cervi. 2006: 33). Le forze nazifasciste dovevano affrontare non solo gli Alleati ma anche gli uomini della Resistenza.
1.2. La Resistenza partigiana
Mentre nell’Italia centro-settentrionale era fondata la Repubblica di Salò sostenuta dai nazisti. Gli italiani che le andavano contro si raggruppavano, intorno alla cosiddetta ʺResistenza partigianaʺ. «Resistenza: parola magica e tragica, per cui tanti sono morti e per cui tanti sono vivi.» (Viganò. 1955: 9). I membri di tale movimento appartenevano praticamente alle diverse tendenze antifasciste:
«Liberali, socialisti e comunisti approdavano al CLN con le loro ben definite ideologie […] e i democristiani vi portavano l’eredita del Partito popolare arricchita dalle spinte sociali di un neoguelfismo populista.» (Montanelli & Cervi. 2006: 51.52)
Gli antifascisti si organizzavano in un comitato abbreviato in CLN ovvero Comitato di Liberazione Nazionale che chiamava apertamente a combattere le forze nazifasciste. I partecipanti all’incontro dichiarano:
«Nel momento in cui il nazismo tenta di restaurare in Roma e in Italia il suo alleato fascista, i partiti antifascisti si costituiscono in Comitato di Liberazione Nazionale per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza.» (Montanelli & Cervi. 2006: 51)
Infatti, i partigiani s’impegnarono a combattere i fascisti ma anche i nazisti in ritirata di fronte all’avanzata anglo-americana. Il loro compito era quello di svolgere azioni di guerriglia contro la presenza nazifascista sia in montagna, sia nei centri urbani. Allo scopo di poter affrontare i nazifascisti, il Movimento partigiano godeva del sostegno logistico e materiale particolarmente degli Alleati ed era finanziato in diversi modi: «La Resistenza dispone di reti di finanziamento, guidate da famiglie altoborghesi di Milano.» (Cazzullo. 2015: 221)
Infatti, gli aiuti finanziari mandati dagli Alleati o raccolti in Svizzera arrivano clandestinamente in Italia grazie ad uomini come l’architetto Guglielmo Mozzoni che «passerà di nascosto per 84 volte la frontiera tra la Svizzera e l’Italia, per portare ai partigiani denaro, armi e documenti.» (Cazzullo. 2015: 221)
Quanto alle operazioni militari, quella che si scatenava tra i partigiani e i fascisti sostenuti dai nazisti era una vera e propria guerra civile. Si tratta di attacchi violenti, azioni di vendetta, torture… ecc.:
«La guerra civile dettò la sua legge sanguinaria, [i partigiani] colpirono sempre più audacemente nelle città, tedeschi e fascisti risposero sempre più crudelmente.» (Montanelli & Cervi. 2006: 87)
In realtà, questo conflitto coinvolgeva anche i civili che venivano visti, agli occhi delle forze nazifasciste, come complici dei partigiani: «Le reazioni delle autorità naziste e di quelle fasciste indicano chiaramente che la popolazione civile è contro di loro.» (Cazzullo. 2015: 218)
Tuttavia, quelli che aderirono alla Resistenza dovevano subire le azioni di violenza dei nazifascisti. Per fare un esempio basta citare l’esempio dei sette fratelli Cervi che venivano torturati e poi fucilati dai fascisti nel dicembre del 1943:
«I fratelli Cervi sono rimasti nella memoria nazionale […] tutti e sette vengono fucilati all’alba del 28 dicembre 1943, come rappresaglia per l’agguato contro il segretario del fascio Vincenzo Onfiani.» (Cazzullo. 2015: 141)
Un altro caso è quello della famiglia Pinci: «Anche la famiglia Pinci perde cinque tra fratelli e sorelle, fucilati tutti insieme dai tedeschi, il 28 maggio 1944, nella campagna di Palestrina.» (Cazzullo. 2015: 142)
La Resistenza, sostenuta dagli Alleati, è riuscita nell’aprile del 1945 a sconfiggere le forze nazifasciste. La fucilazione del Duce e dei grandi capi fascisti segna la vittoria dei partigiani che hanno fatto un grande sacrificio in nome della libertà: «È giusto ricordare i 45 mila partigiani uccisi, i 20 mila mutilati.» (Cazzullo. 2015: 344)
Tra le fila dei partigiani ci sono anche donne partigiane come Irma Bandiera, Ada Zucchelli, Irma Pedrielli, Tosca Gallarani, Lea Giaccaglia, Gina Borellini, Livia Bianchi, Carlo Capponi e tante altre. Esse sono state protagoniste della lotta partigiana, e molte di loro venivano torturate, offese e fucilate. Le partigiane contribuivano, ognuna a suo modo, alla Resistenza:
«Protagoniste sono spesso le donne. A Milano in testa ai cortei ci sono le operaie della Borletti; a Torino le venditrici di Porta Palazzo rovesciano i banchi delle verdure requisiti dai tedeschi; le contadine organizzano il trasporto di viveri ai quartieri operai delle città.» (Cazzullo. 2015: 222)
Le donne partigiane hanno profondamente marcato la storia della Resistenza. Esse operavano clandestinamente e subivano ogni tipo di sofferenza: «A fianco degli uomini, nel movimento clandestino e nella lotta partigiana, pronte, infaticabili, necessarie, vi sono sempre state le donne.» (Viganò. 1955: 9). Ma, la partecipazione, femminile alla lotta partigiana, ha toccato vari aspetti. Infatti, le donne facevano diversi compiti di sostegno e partecipavano perfino alle azioni militari:
«Le donne lavoravano in ogni maniera nella lotta partigiana: staffette, infermiere, cuoche, magliaie, fornaie, lavandaie, per le esigenze più elementari degli uomini esposti a tanto rischio. Anche combattenti; ed erano sempre pronte.» (Viganò. 1955: 7)
Queste donne appartenevano a diverse classi sociali ed intellettuali; provenivano anche da diversi ambiti, ma la maggioranza era delle massi popolari, contadine ed operaie in particolare: «Alcune erano intellettuali, studentesse e professioniste, o congiunte di studenti e professionisti, ma il maggior numero veniva dal popolo, dalla massa, dalle fabbriche, dai campi, dagli ospedali.» (Viganò. 1955: 9)
Il punto di forza delle donne partigiane sta sicuramente nella loro femminilità. L’essere donna diventa praticamente un’arma efficace contro le forze nazifasciste. Il carattere femminile aiuta le donne ad usare mezzi e metodi speciali nel compiere lavori e missioni:
«L’attività partigiana di fatto portava queste donne a considerare la femminilità una forza manipolabile e le spingeva a realizzare nuove immagini di sé. […] Sotto la maschera esibita della femminilità potevano attivare qualità speciali: lucidità e istinto, coraggio nell’emergenza e capacità di mediazione.» (La Rovere. 2000: 46.47)
Il sacrificio delle donne nella Resistenza nasce dalla loro volontà di fare bene alla Patria, al popolo nonché a tutto il mondo tramite lo sviluppo e la stabilità che si realizzano solo e sicuramente con la vittoria sui nazifascisti:
«Sono morte per rifare la faccia pulita all’Italia, per portare bene ai più cari fossero essi salvi o mancati, per continuare il cammino del progresso verso una illuminazione di cuore e di coscienza, nell’interesse e nella pace del mondo intero.» (Viganò. 1955: 9)
Infine, è da ricordare che l’esito vittorioso della Resistenza è dovuto praticamente al contributo degli italiani che hanno preso posizioni antifasciste. Tant’è vero che il merito delle donne era considerevole. Il loro ruolo è ricordato non solo nei libri di storia ma anche e soprattutto nella letteratura.
2. La donna partigiana ne L’Agnese va a morire
2.1. Renata Viganò tra Resistenza e letteratura
Renata Viganò (Bologna, 17 giugno 1900- Bologna, 23 aprile 1976) è stata un’infermiera, resistente partigiana e scrittrice. La sua passione per la letteratura si è manifestata già all’età di 13 quando ha pubblicato una raccolta di poesie Ginestra in fiore. In realtà, la Viganò voleva fare il medico ma le difficoltà economiche della famiglia l’hanno spinta ad interrompere gli studi al liceo e a dedicarsi al lavoro in ospedale come infermiera pur continuando a scrivere.
Con l’armistizio dell’8 settembre 1943, la Viganò inizia a partecipare, insieme al marito Antonio Meluschi, alla Resistenza facendo l’infermiera e la staffetta, e scrivendo anche per la stampa clandestina. L’esperienza della Guerra di liberazione ha influenzato i suoi scritti pubblicati dopo il 1945. Oltre all’opera più nota L’Agnese va a morire, la Viganò ha pubblicato altre opere, tra cui ricordiamo Donne della Resistenza (1955) e Matrimonio in brigata (1976).
Infatti, le opere della Viganò si collocano in quella letteratura della Resistenza. Questa letteratura nasce nel clima artistico e culturale del Neorealismo, un movimento letterario e cinematografico caratterizzato da una forte partecipazione degli scrittori alla realtà:
«Di fronte alla realtà lo scrittore neorealista non è passivo ed inerte, ma profondamente compartecipe […] Neorealismo è perciò, anche e soprattutto, questa presa di coscienza fortemente sociale da parte del letterato o dell’intellettuale.» (Varanini & Marti & Viti & Boldrini. 1978: 955.956)
Gli scritti sulla Resistenza si sono arricchiti quindi grazie non solo agli storici ma anche ai letterati che, in molti casi, hanno partecipato ai fatti di tale Movimento. Tra questi scrittori spicca il nome di Renata Viganò che, insieme al marito, ha vissuto in prima persona gli anni della Resistenza partigiana:
«Le opere nate dall’esperienza della guerra, della Resistenza, dei campi di concentramento o di prigionia, occupano necessariamente il primo posto nella letteratura neorealistica perché ne esprimono con maggior immediatezza le esigenze più urgenti e schiette. […] Si tratta di opere nate dalla diretta esperienza…» (Giudice & Bruni. 1973: 709)
2.2. Genesi e critica letteraria
L’Agnese va a morire (1949) è un romanzo che s’inserisce nella cosiddetta ʺLetteratura della Resistenzaʺ. Tradotto in quattordici lingue, il romanzo è ispirato, in gran parte, alle vicende autobiografiche della scrittrice. Nel 1976 l’opera viene adattata al cinema dal regista Giuliano Montaldo con l’omonimo titolo.
La storia del romanzo gira attorno alla protagonista Agnese, un personaggio ispirato alla realtà reale vissuta dalla scrittrice nei tempi della Resistenza. Sebastiano Vassalli scrive a proposito di questo personaggio:
«L'Agnese è la contadina protagonista del romanzo ed è anche un’immagine collettiva, è uno e molti, è soggetto e oggetto del sacrificio, è un personaggio assai reale sotto certi punti di vista.» (Viganò. 2014: 3.4)
Infatti, Agnese era una contadina diventata partigiana ed era attiva insieme alla scrittrice che, attraverso il suo romanzo, ha cercato di riportare i fatti accaduti inserendo elementi autobiografici. Quello che, nell’opera accade, ad Agnese era realmente accaduto alla Viganò. In un articolo intitolato La storia di Agnese non è una fantasia, la scrittrice scrive:
«La prima volta che vidi l'Agnese, o quella che nel mio libro porta il nome di Agnese, vivevo davvero in un brutto momento. Ero in un paese della Bassa, sola col mio bambino. Mio marito l’avevano preso le SS a Belluno, non ne sapevo più niente, ogni ora che passava, lo vedevo torturato e fucilato, un corpo anonimo che non avrei mai più trovato, neppure per seppellirlo.» (Viganò. 2014: 243)
Riguardo al modo in cui viene strutturata l’opera riportiamo una citazione del Vassalli che aggiunge: «Più esamino la struttura letteraria di questo romanzo e più la trovo straordinaria. Tutto è sorretto e animato da un’unica volontà, da un’unica presenza, da un unico personaggio.» (Viganò. 2014: 1). Infatti, da queste parole si capisce come Agnese non gioca soltanto un ruolo rilevante nella lotta partigiana ma anche nella struttura letteraria dell’opera.
Infine, bisogna accennare che il romanzo della Viganò rappresenta una fonte storica su quello che era accaduto tra 1943 e 1945. E ciò che rende l’opera più vicina ai fatti storicamente accaduti è proprio il modo autobiografico in cui viene raccontata la trama. Nell’introduzione al romanzo, il Vassalli scrive ancora:
«L’Agnese va a morire è una delle opere letterarie più limpide e convincenti che siano uscite dall’esperienza storica e umana della Resistenza. Un documento prezioso per far capire ai più giovani e ai ragazzi delle scuole che cosa è stata la Resistenza.» (Viganò. 2014: 1)
2.3. Trama dell’opera
La storia del romanzo si svolge nelle valli di Comacchio in Romagna tra 1943 e 1945. Agnese è una lavandaia che vive con il marito Palita che «aveva la bocca viva e larga, gli occhi buoni, sembrava molto più giovane di sua moglie.» (Viganò. 2014: 12)
Palita era un impegnato comunista di cui la deportazione provoca la solitudine della moglie che poi s’impegna clandestinamente nella lotta partigiana facendo principalmente la staffetta per conto dei partigiani.
Uno dei partigiani conferma l’impegno comunista di Palita nella Resistenza: «Palita è del nostro partito [...] Palita è un bravo compagno. Faceva molto per noi.» (Viganò. 2014: 21) L’Agnese disse a proposito della militanza del marito:
«So che ha sempre voluto male ai fascisti, e dopo anche ai tedeschi, e diceva che i comunisti ci avrebbero pensato loro per tutti, anche per i padroni che ci sfruttano, a fare la piazza pulita.» (Viganò. 2014: 21)
A causa della malattia del marito, Agnese è costretta a lavorare molto per mantenere la famiglia. Un giorno, mentre lei torna a casa, incontra un partigiano ferito, lo accompagna e poi lo nasconde a casa. Tuttavia, per opera dei vicini di casa, Augusto, la Minghina e le due figlie, arrivano i tedeschi che hanno «… aspetti meccanici disumani, pelle, ciglia, capelli quasi tutti di un solo colore sbiadito, e occhi stretti, crudeli… » (Viganò. 2014: 14.15)
Infatti, mentre il soldato ferito riesce, con l’aiuto di Agnese, a scappare, i soldati tedeschi frugano la casa portando via Palita che «andava verso il camion in mezzo a due soldati [...] I tedeschi montarono sul camion, vi issarono Palita tirandolo per le braccia.» (Viganò. 2014: 15) Palita viene poi deportato in Germania ma muore in treno prima di arrivarci. Ma nonostante la sua scomparsa, lui è sempre presente nei sogni di Agnese : «Da quando aveva saputo che era morto, Palita se lo sognava quasi tutte le notti, sempre lo stesso sogno, come una presenza viva.» (Viganò. 2014: 42)
In realtà, mentre la protagonista sta dalla parte dei partigiani, Minghina e le due figlie collaborano con i fascisti e i tedeschi: «Dietro la Minghina c’erano i fascisti, dietro Agnese i partigiani: tiravano, ognuna dalla sua parte, la corda tesa della minaccia.» (Viganò. 2014: 50) Tant’è vero che la Minghina e le due figlie sono delle spie che hanno venduto Palita ai tedeschi, che le hanno poi uccise tutte insieme al marito Augusto: «Tutti e quattro li hanno ammazzati proprio i loro amici tedeschi. Non c’è niente di male metter via dal mondo quelli che fanno la spia. Hanno fatto prendere Palita. Se non c’erano loro Palita sarebbe ancora qui.» (Viganò. 2014: 71)
Tuttavia, una volta, e mentre i tedeschi sono a casa di Agnese, un soldato chiamato Kurt spara uccidendo la gatta nera lasciata da Palita. L’Agnese approfitta del fatto che egli è ubriaco, gli toglie l’arma e lo uccide: «Allora prese fortemente il mitra per la canna, lo sollevò, lo calò di colpo sulla testa di Kurt.» (Viganò. 2014: 54) Poi, Agnese scappa per la valle lasciando dietro la casa bruciata dai tedeschi. Ai ʺcompagniʺ lei spiega il fatto: «Io non so sparare. Gli ho dato un colpo così. Fece l’atto, poi rimise il mitra piano piano sul sedile.» (Viganò. 2014: 59)
In seguito all’uccisione di Kurt, Agnese lascia la casa e raggiunge i partigiani rifugiati nella valle. E così inizia la sua vera e diretta partecipazione alla Resistenza in una brigata diretta da ʺComandanteʺ, un uomo colto che capeggia la lotta contro i nazifascisti, Agnese «sapeva che lo chiamavano ʺl’avvocatoʺ, che era uno istruito, un uomo della città, che aveva sempre odiato i fascisti, e per questo era stato in prigione.» (Viganò. 2014: 57)
Dopo un breve periodo trascorso nelle capanne costruite nella valle, il Comandante dà ordine di cambiare posto per paura dell’arrivo dei tedeschi che iniziano a bruciare le case dei dintorni. Prima di lasciare la valle, Agnese decide coraggiosamente di salvare tutta la roba lasciata nelle capanne rischiando così di essere arrestata dai tedeschi. A Agnese il capo dei partigiani chiede di andare in un paese indicato solo con la sigla L dove troverà il partigiano Walter che, con tutta la famiglia, fa il partigiano:
«Walter e i suoi lavoravano per la ʺresistenzaʺ, lui dirigente politico del paese, sua moglie e sua figlia staffette, sua cognata infermiera della brigata, e perfino suo figlio minore, un bimbo di dodici anni, serviva a portare roba in giro.» (Viganò. 2014: 113)
Nel corso della trama i partigiani vanno in azioni contro i nazifascisti, gli aerei alleati bombardano la zona, i tedeschi invece fanno rastrellamenti e rappresaglie, arrestano civili sospettati, e danno fuoco alle case e alla valle. Lungo i canali delle valli, i partigiani si spostano sulle barche trasportando la roba che serve per la guerra, ma spesso si scontrano coi tedeschi. Infatti, tra la neve e il ghiaccio, il freddo invernale aumenta le difficoltà dei ʺcompagniʺ.
L’epilogo del romanzo è tragico, durante una delle sue missioni da staffetta, Agnese va in un paese, dove i tedeschi fanno dei rastrellamenti dopo la perdita di un camion. Arrestata anche lei da due soldati, Agnese viene messa con altri civili, uomini, donne e perfino bambini, arrestati sulla strada e poi condotti in luogo stretto e buio:
«Due soldati aprirono la porta sotto il fienile, i rastrellati furono compressi in uno spazio stretto, obbligati ad entrare nel camerone senza luce [...] L’Agnese fu degli ultimi ad entrare. Le chiusero la porta alle spalle. [...] Era una rimessa per attrezzi, simile allo stanzone.» (Viganò. 2014: 234)
Tra i civili detenuti iniziano discussioni sui tedeschi e i partigiani. Dai suoi discorsi, Agnese viene riconosciuta e forse denunciata da qualche spia infiltrata tra gli arrestati. Di conseguenza, e dopo la liberazione di alcuni individui, un maresciallo nazista, con colpi di pistola, spara ed uccide la povera Agnese:
«Il maresciallo gridò ancora; prese la pistola, le sparò da vicino negli occhi, sulla bocca, sulla fronte, uno, due, quattro colpi. Lei piombò in giù col viso fracassato contro la terra. [...] L’Agnese restò sola, stranamente piccola, un mucchio di stracci neri sulla neve.» (Viganò. 2014: 239)
2.4. Il ruolo di Agnese nella lotta partigiana
In seguito alla morte di Palita, Agnese cambia profondamente i suoi interessi iniziando ad occuparsi della lotta politica proprio come faceva il marito da comunista: «Capiva quelle che allora chiamava ʺcose da uominiʺ, il partito, l’amore per il partito, e anche ci si potesse anche fare ammazzare per sostenere un’idea bella, nascosta…» (Viganò. 2014: 165.166)
In tutta la trama Agnese incontra partigiani come Comandante, Tarzan, Clinto, Tom, ʺLa Disperataʺ, Walter, Zero, Giglio, Magòn e tanti altri. Lei e i partigiani hanno condiviso momenti di sofferenza, paura, dolore ma anche di gioia e divertimento, tant’è vero che nella loro vita nella macchia c’è di tutto: «l’azione, l’assalto, la difesa, le armi, i litigi, il dormire, il mangiare, le canzoni quando si è allegri, tutte le cose della vita, rifatte, ritrovate.» (Viganò. 2014: 184)
La prima collaborazione di Agnese coi partigiani inizia, dopo la deportazione del marito, quando lei sta ancora a casa, cioè prima di raggiungere la macchia. I ʺcompagniʺ si recano a casa di lei, le spiegano le cose da fare, e lei accetta i compiti: «Allora le spiegarono che cosa avrebbe dovuto fare, e lei diceva di sì [...] Si vedeva che era contenta, che prendeva coraggio. Si attentò anche a suggerire qualche suo parere, e i compagni l’approvarono.» (Viganò. 2014: 22)
L’Agnese aiuta i ʺcompagniʺ coi soldi che ricavava dal lavoro di lavandaia. Infatti, dopo la morte di Palita, continuando a fare la lavandaia, lei ormai spende meno. L’Agnese disse ad un partigiano venuto a casa sua: «Col bucato, in questi mesi, ho guadagnato molto. Vi voglio dare un poco di soldi.» (Viganò. 2014: 26.27)
I partigiani hanno fatto una raccolta di soldi in omaggio al defunto Palita, uno di loro le disse: «Abbiamo raccolto questi soldi per onorare la memoria del povero Palita.» (Viganò. 2014: 44) Ma Agnese non ha usato quei soldi per sé ma per i ʺcompagniʺ facendo per loro delle calze: «Con quel denaro comperò della lana di pecora. Si mise a fare delle calze per i partigiani.» (Viganò. 2014: 44)
Inoltre, la casa di Agnese diventa un luogo d’incontro dei partigiani che si riuniscono per discutere della guerra e delle cose da fare. Tant’è vero che in casa di Agnese «Si organizzavano queste riunioni quando l’aia era vuota [...] Tutti sedevano attorno alla tavola [...] Parlavano a lungo, senza fermarsi mai. L’Agnese non riusciva a tener dietro ai loro discorsi.» (Viganò. 2014: 45)
Infatti, al posto di Tarzan, torturato e ucciso dai tedeschi e che prima era lui che le dava gli ordini, viene un altro partigiano che «Venne in casa dell' Agnese per incontrarsi con Toni e Mingùcc, i due vecchi compagni di Palita.» (Viganò. 2014: 44)
Sempre in casa di Agnese, i partigiani s’incontrano una volta non solo per discutere della guerra ma per far funzionare ʺUna radio trasmettenteʺ. Si tratta di un mezzo di comunicazione tra i ʺcompagniʺ e gli Alleati: «Nel silenzio s’intese lo sfrigolio della radio […] E incominciò il dialogo. [...] due voci che si rispondevano, quella del partigiano italiano e quella del soldato alleato.» (Viganò. 2014: 47.48)
Questo apparecchio serve anche ad avere notizie. Finito il dialogo tra un partigiano e un soldato alleato, l’apparecchio viene lasciato in casa di Agnese affinché possa farlo funzionare e ascoltare le notizie: «L’apparecchio ricevente lo lasciarono all' Agnese, le spiegarono come doveva fare perché funzionasse; le consigliarono di ascoltare le notizie, radio Roma e radio Londra.» (Viganò. 2014: 48)
Tuttavia, l’arrivo dei tedeschi a frugare nelle case del paese spinge i partigiani a rifugiarsi nella valle: «I compagni non venivano più a fare le riunioni in casa sua. Toni e Mingùcc, con l’arrivo dei tedeschi, s’erano allontanati dal paese, nascosti nella valle.» (Viganò. 2014: 52) Ma in seguito all’uccisione del soldato tedesco Kurt in casa, Agnese si preoccupa di quello che può succedere ai partigiani nascosti nella vicina valle: «I ʺragazziʺ potevano essere presi, ed era colpa sua, per avere fatto ʺquella cosaʺ.» (Viganò. 2014: 55). Allora, Agnese va in fretta a salvarli dalla reazione tedesca che sembra imminente: «Bisognava che avvertisse al più presto i partigiani, che andassero via subito, che certo i tedeschi avrebbero fatto dei rastrellamenti, delle rappresaglie.» (Viganò. 2014: 55)
In realtà, la collaborazione coi partigiani rappresenta sicuramente un pericolo perché ha rischiato l’arresto e l’uccisione. Ma lei dice sempre di essere pronta per qualsiasi missione. L’Agnese dice: «Se c’è bisogno ci vengo.» (Viganò. 2014: 144) Inoltre, durante gli spostamenti, incontra tante e grandi difficoltà: patire la fame, la sete, il sonno, la fatica e le minacce. Lei rischia perfino la vita perché i tedeschi si fanno vedere ovunque, e ogni volta lei viene arrestata, interrogata e lasciata ad aspettare ore e ore. Ma la sua partecipazione alla Resistenza si manifesta principalmente tramite il lavoro di staffetta.
L’Agnese fa principalmente la staffetta per conto dei partigiani. Lei porta spesso gli ordini o la ʺrobaʺ ai ʺcompagniʺ spostandosi da paese in paese. Talvolta, la ʺrobaʺ non è altro che esplosivo. Una volta, mandata da un certo Tarzan, Agnese dice ad altri tre partigiani: «Tarzan mi ha dato questa roba. Però andate lontano dal fuoco. Lui ha detto che scoppia.» (Viganò. 2014: 30)
Un’altra volta, Agnese porta con sé non solo fogli di stampa ma anche armi ed esplosivi: «Nella sporta portava la stampa, o delle armi, o il tritolo e la dinamite.» (Viganò. 2014: 231). Agnese partecipa anche al trasporto di armi e munizioni tramite le barche nei canali delle valli, tant’è vero che lei conosce anche come usare e caricare le armi: «L’Agnese aprì una cassetta, tirò fuori caricatori e pallottole: osservava il tipo dell’arma, e trovava subito i proiettili che ci volevano. Clinto ne faceva la revisione, ma lei non si sbagliò, neppure una volta.» (Viganò. 2014: 224)
Infatti, fare la staffetta è un compito duro per una donna. L’Agnese deve fare molti chilometri percorrendo strade, città e perfino valli, fiumi e montagne. Lo spostamento si fa a piede e molto spesso in bicicletta. ʺMamma Agneseʺ deve anche essere attenta ai tedeschi che si fanno vedere ovunque nelle vie e nelle strade per sorvegliare, rastrellare o arrestare sospetti. Tuttavia, Agnese ha un’apparenza che non suscita dubbi: «Magòn era contento di adoperare Agnese per quelle cose; il suo aspetto duro e pacifico non attirava i tedeschi, non interessavano di una vecchia grossa contadina.» (Viganò. 2014: 231)
IL Comandante che ha sicuramente notato la bravura e l’interesse di Agnese nella collaborazione coi partigiani le ha dato diversi incarichi, il primo è quello di essere responsabile delle staffette. Il Comandante le dice:
«Tu ti incaricherai di tutti i rifornimenti, organizzerai le staffette, [...] e porterete alla ʺcasermaʺ quello di cui gli uomini hanno bisogno. Farai il deposito a casa di Walter. […] Sarai tu responsabile di tutto.» (Viganò. 2014: 114)
Le staffette, che si spostano di solito in bicicletta, chiamano Agnese la ʺresponsabileʺ ma a lei non piace questo nome, forse per modestia.
Il Comandante sceglie proprio Agnese come responsabile per la sua serietà, fiducia ed esperienza. Ma, la responsabilità di Agnese è troppo impegnativa, lei deve sempre preparare la roba che le staffette devono portare: «Molte cose aveva sempre da fare: preparare i sacchi, le sporte, gli involti per quando arrivavano le donne: quattro staffette del paese e quelle della famiglia di Walter.» (Viganò. 2014: 118)
Ad Agnese tocca organizzare le staffette con cui stringe amicizia: «L’Agnese riorganizzò il servizio delle staffette. Venivano a trovarla come amiche e conoscenti. [...] Quando se ne andavano, portavano via dei sacchi, o delle sporte, o delle valige.» (Viganò. 2014: 140) Infatti, il compito delle staffette consiste nel portare particolarmente ordini, notizie e cibo: «Le staffette portavano all’accampamento il pane, il vino, gli ordini, e le circolari, la stampa, le notizie di Radio Londra.» (Viganò. 2014: 80)
In realtà, portare gli ordini da una brigata all’altra è un compito che le staffette fanno sempre ed è sicuramente indispensabile per lo svolgimento della lotta partigiana: «Vennero anche due donne, staffette di collegamento, ripartirono con gli ordini per gli altri gruppi della brigata.» (Viganò. 2014: 69)
Tra le staffette incontrate da Agnese c’è la Rina che lavora sotto il comando del ʺcommissario politico della brigataʺ. Per opera di una spia i fascisti hanno arrestato, torturato poi fucilato il padre e il fratello di lei. Infatti, anche Rina raggiunge i ʺragazziʺ nella valle dove ritrova il fidanzato Tom, partigiano anche lui: «La Rina, una giovane staffetta, viene a stare in brigata a fianco del suo fidanzato e per restarci dopo il matrimonio.» (La Rovere. 2000: 133). Ma le staffette non portano solo gli ordini ma talvolta anche lettere: «Venne una staffetta di Biagio a portare notizie e ordini da parte del Comandante. [...] La staffetta portava anche una lettera di Tom per la Rina.» (Viganò. 2014: 112.113)
Tuttavia, il rischio di fare la staffetta è molto grande perché lo spostamento è controllato dai tedeschi. Per riuscire a svolgere le diverse attività nel modo migliore, esse usano dei metodi particolari: riconoscersi con parole speciali: «Per il ʺlavoroʺ le mandavano delle staffette, donne sconosciute che si presentavano con una parola d’ordine.» (Viganò. 2014: 52) O riuscire a passare quando vengono frugate dai tedeschi e fascisti: «Staffette inviate con un ordine nascosto nelle scarpe.» (Viganò. 2014: 158)
Inoltre, come la maggior parte delle donne, Agnese si occupa dei lavori di casa prendendo cura del marito Palita che riconosce: «L’Agnese è sempre stata brava. Lavora lei per me, fa la lavandaia al paese. Mi tiene con tutte le cure come un bambino. Senza lei non sarei più vivo.» (Viganò. 2014: 13) Infatti, si nota qui che Agnese è una donna affettuosa, coraggiosa e responsabile. Per mantenere la famiglia, lei fa la lavandaia al paese svolgendo così un compito impegnativo.
Anche nella macchia Agnese partigiana svolge il ruolo della madre, per questo è chiamata ʺmamma Agneseʺ: «Era stata con loro come la mamma, ma senza retorica [...] Questo doveva venir fuori coi fatti, col lavoro. Preparargli da mangiare, che non mancasse niente, lavare la roba, muoversi sempre perché stessero bene.» (Viganò. 2014: 92)
Infatti, Agnese fa ai partigiani quello che una madre fa ai propri figli a casa, e cioè preparare cibo, lavare vestiti e fare in modo che non gli manchi nulla come se fossero in una famiglia:
«Essa combatte con i partigiani, anzi con partigiani appartenenti a formazioni fortemente politicizzate […] La chiamano ʺcompagnaʺ, ed in effetti lo è. […] L'Agnese assiste i partigiani, fa per loro tutto ciò che farebbe una buona madre.» (Viganò. 2014: 2)
In un altro passo del romanzo leggiamo di Agnese che prepara da mangiare ai partigiani: «Mise sulla tavola il pane, i piatti, preparò il salame e il formaggio.» (Viganò. 2014: 152) Poi, lei fa di tutto e si sforza affinché i partigiani mangino bene: «Quando l’Agnese ebbe finito di riempire l’ultimo piatto, dovette ricominciare dal primo, che era già vuoto. [...] andava ancora avanti e indietro; portò un cesto di mele e raccolse i piatti sporchi e le posate.» (Viganò. 2014 :67)
Con la presenza di Agnese i partigiani hanno a disposizione ciò di cui hanno bisogno perché lei controlla tutto: «Faceva a Clinto delle domande lente, precise: se avevano abbastanza da mangiare, abbastanza da coprirsi, se c’era qualcuno malato, se il servizio di rifornimenti risultava regolare e ben fatto.» (Viganò. 2014 :119) Verso la fine della trama, Agnese porta da mangiare anche ad alcuni partigiani scappati dai tedeschi e rifugiati nella valle. Infine, risulta che «Agnese è l’archetipo della madre per eccellenza, anche se, paradossalmente, non ha figli propri.» (La Rovere. 2000: 133)
Conclusioni
In Italia, la storia della Resistenza è ricca di esempi che testimoniano la partecipazione delle donne alla liberazione della Penisola. Infatti, Renata Viganò ha lasciato la propria impronta non solo nella storia della Resistenza con una partecipazione viva e diretta ma anche e soprattutto nella letteratura. La Viganò riuscì così ad affermarsi sulla scena storica e letteraria in Italia. L’Agnese va a morire è una delle testimonianze letterarie più importanti e rilevanti sulla Resistenza delle donne. Il romanzo riflette la partecipazione diretta della scrittrice ai fatti reali in quanto donna partigiana. Tant’è vero che le partigiane svolsero un ruolo notevole nella Resistenza assumendo vari ruoli. Oltre alla lotta armata a fianco degli uomini talvolta anche i mariti, esse facevano diversi compiti di sostegno logistico.
Il ruolo di Agnese nella trama è il nucleo centrale dei fatti raccontati. La sua partecipazione alla Resistenza è di grande rilevanza, tant’è vero che i partigiani hanno potuto continuare a combattere riuscendo così a resistere. La volontà di Agnese che rischia la vita in nome della libertà nazionale deriva dalla sua convinzione che la vita umana ha un limite, e per questo bisogna approfittarne per fare le belle cose: «Lei lo sapeva che questa vita non è fatta per durare.» (Viganò. 2014: 92)
Infatti, la cosa più bella in questo caso è sicuramente il sacrificio che viene fatto per la patria. Il Vassalli scrive: «Io credo che questo personaggio femminile solo così possa intendersi, nell’ambito di una simbologia, quella del sacrificio.» (Viganò. 2014: 2) Ma, dietro il sacrificio di Agnese c’è anche il marito Palita di cui la moglie ha voluto continuare la missione interrotta dalla deportazione e la morte. Il personaggio di Agnese che rappresenta il sacrificio adombra la stessa scrittrice ma riflette anche il contributo di tante altre donne che hanno marcato la storia della Resistenza con ideali di libertà.